La maga fulminata
Favola rappresentata in musica
Libretto di Benedetto Ferrari
Musica di Francesco Manelli
Prima esecuzione: febbraio 1638, Venezia, Teatro San Cassiano.
Personaggi:
ARTUSIA maga | sconosciuto |
FLORIDORO principe di Ponto | sconosciuto |
RODOMIRA sua sorella in abito di cavaliere | sconosciuto |
ROSMONDO principe d’Armenia | basso |
FILAURA sua sorella in abito di cavaliere | sconosciuto |
FILAMPO cavaliere errante | sconosciuto |
ROSILLO cavaliere errante | sconosciuto |
GIOVE | sconosciuto |
MERCURIO | sconosciuto |
PALLADE | sconosciuto |
PLUTONE | sconosciuto |
ECO | sconosciuto |
SCARABEA governatrice d’Artusia | sconosciuto |
Tre Sirene. Tre Cavalieri trasformati. Coro di Cavalieri.
Libretto – La maga fulminata
All’illustrissimo ed eccellentissimo…
All’illustrissimo ed eccellentissimo signore viceconte Basilio Feilding ambasciatore d’Inghilterra alla Serenissima signoria di Venezia.
I fulminati sono ribelli del cielo, ma la mia Maga fulminata è divotissima del nome di v. eccellenza illustrissima.
Se ne viene in cenere a posare nell’urna della sua grazia.
Benché impolverita, sorgerà nova fenice, vivificata dal calore, della protezione, di v. eccellenza.
È da lei stata goduta, ed applaudita nel teatro; non sia per dispiacerle nel gabinetto e bella dama alletta in pubblico, diletta in privato.
Già presentai all’eccellenza vostra canori i tributi della mia riverente servitù; ora glieli porgo poetici; perch’io voglio, ch’il mio ossequio verso di lei gareggi di durabilità con gli anni; e (se mi fosse concesso) lo vorrei adottare per figlio all’eternità.
Degnisi, di gradire i vivissimi segni, del mio affetto; i miei doni (dirò) gemmati, perché virtuosi, è più che preziosa quella gemma, a cui l’oro di virtù serve di carcere.
Se a gli occhi di v. eccellenza porgo non chiari, non stellati, ma caliginosi, e tetri i concetti, si raccordi ch’al sole anco talvolta presentate sono tenebre, e nubi. Con che a v. eccellenza illustrissima umilmente m’inchino.
Venezia 6 febbraio 1638
Di v. eccellenza illustrissima
umilissimo servitore
Benedetto Ferrari
Lo stampatore a’ lettori
Se l’Andromeda, del signor Benedetto Ferrari l’anno adietro rappresentata in musica dilettò in estremo, il presente anno, la sua Maga fulminata ha fulminato gli animi di meraviglia.
Non contento d’aver addolcite l’onde dell’Adria col non più inteso suono della sua dolcissima Tiorba, con i concerti delicatissimi di due volumi di musica da lui fatti stampare, ha voluto anco far d’oro questo clima con i caratteri oscuri d’una penna. A me toccò di dare alle stampe la sua Andromeda, resto onorato non meno della sua Maga, la quale è stata prima stampata ne’ cori, che su le carte. Accoglietela, lettori, come parto meraviglioso, uscito da autore insigne, quale ha potuto del suo, e con quello di cinque soli musici compagni con spesa, non più, di due mila scudi, rapir gli animi a gli ascoltanti co’ la reale rappresentazione di quella; operazioni simili a principi costano infinito denaro. In oltre, ove s’è trovato a’ tempi nostri privato virtuoso, a cui sia dato l’animo, di porre le mani in tali funzioni, e riuscirne con onore, come ha fatto egli la cui gloria e de’ compagni, il grido universale della serenissima città di Venezia proclama? Accogliete non meno intanto l’intenzione mia, qual è di giovarvi, e dilettarvi, col porgervi in dono, col mezzo delle mie stampe, le fatiche illustri, di così nobile virtuoso, e col descrivervi la musicale rappresentazione, dell’opera, la quale seguitò in questa guisa.
Dileguata la cortina si vide la scena aria tutta, e terra; il suo cielo era come l’altro, quando la notte il vela. Tempestato di stelle facea credere, che in un teatro fosse venuto ad abitare il cielo. Scese per via semicircolare nel suo cerchio d’argento la luna, la quale cantato il prologo si nascose sotterra. Divenne il cielo luminoso e chiaro, e uscito un palazzo reale a far pompa della sua meravigliosa architettura comparve con seguito di cavalieri Artusia maga, e poco dopo Floridoro principe. Il vestire di questi due personaggi era alla foggia turca. La preziosità dell’abito, la squisitezza del canto si può ben ammirare, ma non ridire. Con leggiadrissimo assalto si videro due cavalieri a far battaglia; tra la ferocia de’ colpi brillando la bizzarria dell’abito, stava la gente perduta, e tra due spade languivano di piacer, non di dolore i cori. Spuntò dalla reale il principe Rosmondo. Questi adorno all’uso perso, fece altri perdere col grave aspetto, co’ la pomposità del manto. E colla soavità della voce. Scarabea vecchia rimbambita spiegò con sì argute vivezze i suoi amori, che non vi fu giovane, né vecchio, che non ne divenisse amante. Si oscurò il giorno, tremò la terra, balenò il cielo; invocando la maga Plutone s’aperse l’inferno. Col seguito de’ suoi neri signori comparve il principe di quella regione. Tornò chiaro, e in una nube d’oro si lasciò vedere Pallade, che scorreva le vie del cielo. Cantò costei da personaggio, qual era, divino. Era di così lucida veste ornata, ch’ogni occhio comprava la di lei vista a prezzo d’abbagliamenti. Uscirono dalla reale sei nani a formare una ridicola danza, e qui ebbe fine l’atto primo.
Divenne la scena un bosco; pareano le di lui fronde tremolare, ed i ruscelli scorrere; al suo bel verde non mancava altro di naturale, che il voto d’un augello, e ‘l corso d’una fera. Cinta d’un bizzarissimo succinto arnese si vide la maga: al cenno della verga, un albero, una fonte, e un sasso figliarono tre cavalieri. Così bella trasformazione trasformò in giubilo mill’anime. Si cambiò in un baleno l’imboschito apparato in spumoso, e marittimo; veleggiava per lo mare una navicella con due cavalieri dentro, e un timoniere a poppa, si vedea tracciata da tre sirene al lito. Schernite al fine si attuffarono nell’acque. Fu l’occhio del riguardante dall’onde false a i sentieri del cielo chiamato da Mercurio, che leggiadrissimo passeggiava per le nubi; s’aperse poco dopo il cielo, e si glorificarono le viste per il tonante, che sopra d’un aquilone posava; giunse Pallade sopra d’un carro d’oro da due civette tirato, e nella gran sala dell’aria si formò un concistoro di deità. Non si può narrare, ne l’artificio, ne l’ornamento di queste macchine, chi vuol sapere il rapidissimo volo di Mercurio, diventi augello. Chiuso il cielo, si vide l’inferno, da cui uscirono otto spiriti a figurare stravagantissimi diversi intrecci; e qui ebbe fine l’atto secondo.
Tornò la reggia d’Artusia, e uscito il principe Floridoro, vide al cenno della maga mutarsi la prospettiva in orrida spelonca, colle due principesse legate a due macigni, e Rosmondo principe cangiato in drago, che le giva dilaniando. Sparì il funebre spettacolo. Artusia infuriata, dopo aver fatto tornare il mare, la selva, l’inferno, e bestemmiate le sue deità, e quelle del cielo, le cadde un folgore nel seno, e apertasi la terra profondò. Tornarono di nuovo ad indorare con i suoi splendori le nubi Giove, Pallade, e Mercurio; indi non più veduti questi numi, sopravvenne un’oscurità densa, la quale accompagnata da tuoni, e lampi, e da tempesta, scagliò terrore, e diletto insieme ne’ circostanti, ad un orribile scoppio andò in fumo il palazzo d’Artusia, e tornato all’essere suo innato il loco, cioè aria, e terra, si videro liberati eroi con altri cavalieri, e Pallade a loro nel mezzo, la quale dopo avergli licenziati, sovra una nube d’argento, che sotto de piedi le nacque salì meravigliosamente al cielo. Otto de’ cavalieri fecero una bellissima danza, e qui ebbe fine l’ultimo atto. Vivete sani.
Argomento
Decantava la fama per i più valorosi cavalieri dell’Asia Floridoro principe di Ponto, e Rosmondo principe d’Armenia; uno spirito in due vite, ed in due corpi un’anima. Gareggiavano con essi loro in valore le principesse Rodomira, e Filaura: la prima a Floridoro, la seconda a Rosmondo sorella. I principi per suggellare un tanto affetto fra di loro, vollero cambiare le sorelle, e se n’attendevano in breve gli effetti del reale, e glorioso maritaggio. Ma la sorte, come quella, che sempre vuole un voto nell’umane deliberazioni, condusse prigione d’Artusia il principe Rosmondo. Era questa Artusia principessa libera, e dell’arti magiche peritissima posseditrice; Donna in vigor di quelle così barbara, ed empia, ch’in lei non altro era d’umano, che l’umana effigie. Nell’incantato suo regno, entro una superbissima reggia, pure per incanto formata, viveva costei a voglia del senso suo, senza tanto riguardo, né del cielo, né de gli dèi. Inciampò nello stesso laberinto il principe Floridoro, quale giva per lo mondo cercando il perduto amico; e di questo cavalier s’accese d’amore così fieramente la maga, che la caduta in cenere per lui l’avrebbe sempre riputata un sorgere di fenice. Pure amò sola; che Floridoro composto di virtù sdegnò sempre amori impudichi, ed opere non degne. Rodomira, e Filaura avendo perduti i principi amanti si armarono, e si misero all’inchiesta di quelli. Sconosciute le guidò, e congiunse il caso al regno d’Artusia, e venute all’armi fra loro, al fine sotto la reggia della maga, per volere del cielo, si conobbero, ed abbracciatesi insieme entrarono in quella per liberare i due principi con un anello, ch’aveva Filaura in dito, il quale scioglieva ogni incanto. Artusia intanto, non potendo espugnare la crudeltà di Floridoro, intenderne vuole la cagione da Pluto; gli è risposto, che Floridoro vive amante di Filaura, Rosmondo di Rodomira; gli è significato l’arrivo delle principesse, e rivelata la virtù dell’anello di Filaura; ond’ella ben tosto, per mezzo delle sue arti fa, che cada in suo potere. Pallade vedendo dal cielo il perdimento di questi eroi, protettrice de’ valorosi, e de’ sapienti, come dèa dell’armi, e della sapienza, dispone di volere la morte d’Artusia, e la libertà, de’ principi. Rodomira, e Filaura addolorate per la grave perdita dell’anello, trattano con Rosmondo, (che consentir no ‘l vuole) di levar la vita alla maga in una caccia, che si doveva fare alla campagna, e così riavere, e la gemma, e la libertà. Giove prevedendo la ruina loro, comanda Mercurio, che scenda in terra ad impedire la caccia, e ricuperare l’anello, per consegnarlo poi a due cavalieri di Ponto, quali venivano navigando al regno d’Artusia, per avventurare la loro vita, per la salute de loro principi. Proseguendo Floridoro nell’odio contro la maga, ella così s’adira, e disumana, che dato di piglio ad ogni sorte di crudeltà, incanta le due principesse a due Tufi legate entro d’una caverna col principe Rosmondo nel mezzo di loro trasmutato in un serpente, che le va lacerando a brano a brano. Indi studiando una pena spietatissima per Floridoro, tratta dalla disperazione, scioglie in sì sacrileghe voci la lingua contro del cielo, che dal cielo le cade un folgore nel seno, e la terra per non sostenerla, l’inghiotte. Pallade, ottenuta da Giove licenza, scende repente alla terra, e disfatto l’incantato palazzo, libera, con molt’altri cavalieri, i quattro eroi, i quali uniti in matrimonio, ed instrutti del camino, gl’indirizza felicemente a i regni loro.
D’incerto all’autore
Fra gli innocenti amori
la ministra d’inferno empia commove
scellerati furori;
ma l’arco di tua lira emulo a Giove,
mentre avvien, ch’ella mora,
FULMINA con l’oblio le colpe ancora.
Del signor Francesco Sbarra all’autore
Qualor prendi a toccar legno sonoro,
doni l’alma alle corde, e altrui la togli;
sì vario, e dolce è il suon, ch’entro v’accogli
delle sirene, e delle muse il coro.
Se poi le voci in FULMINE canoro
quest’empia Maga a debellar disciogli,
atterrando d’abisso i fieri orgogli
ne riporti non men palma, che alloro.
Ceda il tracio cantor, ceda di Delo
il nume a’ pregi tuoi; che ben discerno
ch’un angelo tu sei sott’uman velo;
che se puote espugnar forze d’Averno
la tua bell’opra, è un’armonia del cielo,
non ad altri, che al ciel cede l’inferno.
Del sig. Francesco Peruzzi all’autore
S’alcun desia fra un’amorosa sfida
di femmina mirar gli sdegni, e l’arte,
miri amante una Maga a parte a parte,
se dov’abita Averno amore annida.
Quasi novella insidiosa Armida
eccola segni oprar, e maghe carte,
poscia fede, e pietà, tratta in disparte,
scardinar ciel, mondi atterrar confida.
Ferrari, opra è tua questa; ch’uno sdegno
faccia folgor cader di mano all’Etra
per ferir con un’empia anco un ingegno.
Ah che tanto stupor la mente impetra,
che ridir ben non sa, qual sia più degno,
o ‘l bel plettro d’Apollo, o la tua cetra.
Della signora S. C. all’autore
Chi diede a te quella melliflua cetra
dotto Ferrari, che mill’alme, e mille
soave infiamma d’amorose stille,
e alle rupi nel sen le selci spetra?
S’incanta l’aura, ed il ruscel s’impetra
al suon, ch’acquietar può l’orride scille;
da melodie sì tenere, e tranquille
l’armonia delle sfere oggi s’arretra.
Certo i dèi te ‘l donar; che non si tolle
da mortale terren frutto beato,
né un umile virgulto al ciel s’estolle.
Ah non Apollo, od altro a te l’ha dato.
Teco il traesti allor, che (amico) volle
dar alla terra un Benedetto il fato.
Del signor Angelo De’ Rossi all’autore
Non più la fama oggi fra noi rammenti
del trace Orfeo l’armoniosa lira;
lo dio non pensi, che splendori spira
instupidir con cetra d’or le menti.
Restan de’ pregi loro i vanti spenti
dal tuo valor, che il mondo oggi rimira
ergersi al ciel; e ‘l tuo saver più ammira
che i carmi suoi, che i suoi canori accenti.
L’un per Dafne opra invan note divine;
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