L’Andromeda
Rappresentata in musica
Libretto di Benedetto Ferrari
Musica di Francesco Manelli
Prima esecuzione: carnevale 1637, Venezia, Teatro San Cassiano.
Interlocutori:
GIUNONE | soprano |
MERCURIO | tenore |
ANDROMEDA | soprano |
NETTUNO | basso |
PROTEO | basso |
ASTREA | soprano |
VENERE | soprano |
ASTARCO mago | basso |
GIOVE | basso |
PERSEO | tenore |
ASCALÀ cavalier di corte | tenore |
Coro di Ninfe arciere. Coro di Ninfe danzatrici. Coro di Dèi nel cielo.
La scena si finge una spiaggia di mare nell’Etiopia.
Libretto – L’Andromeda
Illustrissimo signore, e padron colendissimo
Andromeda, che fu su le scene, rinacque già son due mesi; su le glorie de’ suoi natali, esce ad accrescersi negl’applausi dell’universo: nell’introdurla con le mie stampe mi son proposto d’assicurarla sotto l’ombra d’un protettore; a fin che principessa sì gloriosa abbia nel nuovo secolo chi l’affidi dall’antiche sciagure. V. s. illustrissima è la scelta a difenderla da gl’infortuni, stimandola via più sicura sotto il suo nome, che sotto la tutela di Giove. L’autore, che ripieno d’ogni virtù, ha potuto nel teatro da sé stesso illustrarla in ogni parte di nobiltà; dopo averla liberata dallo sdegno di Giuno, e sublimatala su le sfere, non avrà forse a desiderarli altra felicità, che di vederla raccolta da un animo generoso. M’assicuro, ch’avrà il godimento che brama, persuadendomi, che ella non sia per stimare minor lode tra gli onori di tanti impieghi, l’essere in questo parto liberale della sua grazia. Con dedicarmeli devotissimo, resto ad augurarli ogni vera prosperità.
Di Venezia, lì 6 maggio 1637.
Di v. s. illustrissima
umilissimo servitore
Antonio Bariletti
Lo stampatore a’ lettori
A gloria de’ signori musici, ch’al numero di sei (coll’autore collegati) hanno con gran magnificenza, ed esquisitezza, a tutte loro spese, e di qualche considerazione, rappresentata l’Andromeda, e per gusto non meno, di chi non l’ha veduta, ho firmato cosa convenevole il farne un breve racconto in questa forma.
Sparita la tenda si vide la scena, tutta mare; con una lontananza così artificiosa d’acque, e di scogli, che la naturalezza di quella (ancor che finta) movea dubbio a’ riguardanti, se veramente fossero in un teatro, o in una spiaggia di mare effettiva. Era la scena tutta oscura, se non quanto le davano luce alcune stelle; le quali una dopo l’altra a poco a poco sparendo, dettero luogo all’Aurora, che venne a fare il prologo. Ella tutta di tela d’argento vestita, con una stella lucidissima in fronte, comparve dentro una bellissima nube, quale ora dilatandosi, ora stringendosi (con bella meraviglia) fece il suo passaggio in arco per lo ciel della scena. In questo mentre si vide la scena luminosa al par del giorno. Dalla signora Maddalena Manelli romana fu divinamente cantato il prologo: dopo del quale s’udì de’ più forbiti sonatori una soavissima sinfonia; a questi assistendo l’autore dell’opera con la sua miracolosa tiorba. Uscì di poi Giunone sovra un carro d’oro tirato da’ suoi pavoni, tutta vestita di tocca d’oro fiammante, con una superba varietà, di gemme in testa, e nella corona. Con meraviglioso diletto de’ spettatori, volgeva a destra, ed a sinistra, come più le piaceva, il carro. Le comparve a fronte Mercurio. Era, e non era, questo personaggio in machina; era, perché l’impossibilità non l’ammetteva volatile; e non era, poiché niun altra machina si vedea, che quella del corpo volante. Comparve guarnito de’ suoi soliti arnesi, con un manto azzurro, che le giva svolazzando alle spalle. Fu eccellentemente rappresentata Giunone dal signor Francesco Angeletti da Assisi; e squisitamente Mercurio dal signor don Annibale Graselli da Città di Castello. In un istante si vide la scena, di marittima, boschereccia; così del naturale, ch’al vivo al vivo ti portava all’occhio quell’effettiva cima nevosa, quel vero pian fiorito, quella reale intrecciatura del bosco, e quel non finto scioglimento d’acque. Comparve Andromeda con il séguito, di dodici damigelle, in abito ninfale. L’abito d’Andromeda era di color di foco; d’inestimabile valuta. Quello delle ninfe era d’una leggiadra, e bizzarra divisa a bianco, incarnato, e oro. Rappresentò mirabilmente Andromeda chi fece il prologo. Tornò in un momento la scena, di boschereccia, marittima. Comparve Nettuno, e gli uscì Mercurio nella sua mirabil machina all’incontro. Era Nettuno sovra una gran conca d’argento, tirata da quattro cavalli marini. Lo copriva un manto di color celeste; una gran barba gli scendeva al petto, e una lunga capigliatura inghirlandata d’alga le pendeva sulle spalle. La corona era fatta a piramidette, tempestata di perle. Fece questa parte egregiamente il signor Francesco Manelli da Tivoli; autore della musica dell’opera. Uscì dal seno del mare, dalla cintola infuso, Proteo, vestito a squame d’argento; con una gran capigliatura, e barba di color ceruleo. Servì di questo personaggio gentilissimamente il signor Gio. Battista Bisucci bolognese. Qui per fine dell’atto si cantò prima di dentro un madrigale a più voci, concertato con strumenti diversi; e poi tre bellissimi giovinetti, in abito d’Amore, uscirono a fare, per intermezzo, una graziosissima danza. Il velocissimo moto, di questi fanciulli talora fece dubbiose le genti, s’avessero eglino l’ali a gli omeri, o pure a’ piedi. A tempo d’una melliflua melodia di strumenti, comparvero Astrea nel cielo, e Venere nel mare. Una entro una nube d’argento; l’altra nella sua conca, tirata da cigni. Era vestita Astrea del color del cielo, con una spada a fiamme nella destra. Venere del color del mare, con un manto d’oro incarnato alle spalle. Fu graziosamente rappresentata Astrea dal signor Girolamo Medici romano, e Venere soavissimamente dal signor Anselmo Marconi romano. Si mutò la scena in boschereccia, e uscì Andromeda con la sua schiera. Sei delle sue dame, qui per allegrezza dell’ucciso cinghiale, fecero un leggiadro, e meraviglioso balletto; con sì varie, e mirabili intrecciature, che veramente gli si poteva dar nome d’un laberinto saltante. Ne fu l’inventore il signor Gio. Battista Balbi veneziano, ballarino celebre. Uscì repente di sottoterra Astarco mago, com’ombra. Era questo personaggio tutto vestito a bruno d’oro, in veste lunga, con capigliatura, e barba lunga e come neve bianca. Scettro di negromante, reggeva la destra una verga. Rappresentò degnamente questo soggetto chi fece Nettuno. S’aperse il cielo, e in uno sfondo luminosissimo, assisi in un maestoso trono, si videro Giove, e Giunone. Era Giove coperto d’un manto stellato; sosteneva la chioma una corona di raggi, e la destra un fulmine. Rappresentò celestemente questa deità chi fece Proteo. Qui per fine dell’atto si cantò prima di dentro un altro madrigale a più voci, concertato con strumenti diversi; e poi dodici selvaggi uscirono a fare, per intermezzo, un stravagantissimo, e gustosissimo ballo di moti e gesti. Non vi fu occhio che non lagrimasse il transito di questa danza. Ne fu inventore il signor Gio. Battista Balbi ballarino suddetto. Si cambiò la scena in marittima; a tempo d’una dolcissima armonia di strumenti diversi comparve da un lato della scena, una bellissima machina con Astrea, e Venere suso. Volgevasi al destro, ed al sinistro lato, come più a quelle deità aggradiva. Le uscì dirimpetto a Mercurio; e aprendosi il cielo assisté Giove nel mezzo. Fece un meraviglioso effetto questo scenone, per la quantità delle machine, e per lo successivo ordine della comparsa, e della gita. In un baleno divenne la scena marittima un superbo palagio. Fu bello e caro il vedere da rozzi sassi, e da spiagge incolte nascere d’improvviso un ben disegnato, e costrutto edificio. Figurava questi la reggia d’Andromeda, dalla quale uscì Ascalà cavaliere. L’abito di costui eccede di valuta, e di bellezza, quello di ogni altro. Comparve vestito all’usanza turca. Con mille grazie di paradiso rappresentò questo dolente personaggio chi fece Mercurio. Di repente sparito il palagio, si vide la scena tutta mare con Andromeda legata ad un sasso. Uscì ‘l mostro marino. Era con sì bello artifizio fabbricato quest’animale, che ancorché non vero, pur metteva terrore. Tranne l’effetto, di sbranare, e divorare, avea tutto di viso, e di spirante. Venne Perseo dal cielo sul Pegaso, e con tre colpi di lancia, e cinque di stocco fece l’abbattimento col mostro, e l’uccise. Era questo personaggio d’armi bianche vestito, con un gran cimiero sull’elmo; e una pennacchiera all’istessa divisa aveva il volante destriere su la fronte. Fu rappresentato questo soggetto angelicamente da chi fece Ascalà. S’aperse il cielo, e si videro Giove, e Giunone in gloria, e altre deità. Scese questo gran machinone in terra, accompagnato da un concerto di voci, e di strumenti, veramente di paradiso. Levati i due eroi, che fra di loro complivano gli condusse al cielo.
Qui la regale, e sempre degna funzione ebbe fine. Vivete sani.
Del padre sig. don Alfonso Pucinelli
All’autore, poeta, musico, e sonator di tiorba eccellentissimo.
Non più fra’ suoi confini il basso polo
provò di meraviglie un sforzo altero;
ch’entro salma mortal dall’emisfero
chiudesse un divin spirto sceso a volo.
Ceda omai ceda ogni lodato stuolo
de la prisca virtù; doni l’impero
di primato al miracolo più vero,
ch’il ciel ammira, e idolatra il suolo.
Scriva, o suoni la man; celesti lire,
paradisine frasi (ah ch’io no ‘l celo)
benedetto quaggiù ne fa sentire.
O felice stagion in mortal velo!
Angel udir senza di vita uscire,
goder quaggiù quel, che si gode in cielo.
Del sig. dottore Bartolomeo Angarani
All’autore.
Mentre su molle, e delicata cetra
la man gentil va fabbricando oggetto
all’orecchio mortal, gran Benedetto,
sovr’umano gioir a quello impetra.
Mentre regia beltà, che non s’arretra
ad altro bel, di questo uman ricetto,
spiega de la tua penna il stil perfetto
ogni vena riesce oscura, e tetra.
Godi di doppio vanto adunque il pregio;
della man, de la penna alto valore
a la fama t’invola eterno il fregio.
Quinci amico a virtù t’ama ogni core,
e con ragion; che nel tuo sen egregio
la gloria ha ‘l tempio, e la sua reggia onore.
Del signor Gio. Francesco Busenello
All’autore.
Oltre le sfere, ove di sol vestito
passeggia il sempre con la gloria a lato,
ove l’altrui memorie eterna il fato,
il tuo nome (o Ferrari) è già salito.
De la tua Andromeda invaghito
Apollo tutti i lumi suoi t’ha dato;
e di tua fama l’infaticabil fiato
col perpetuo de’ cieli ha il giro unito.
Nel lume, di tue lodi io pur vorrei
le mie muse abbellir; ch’il tuo tesoro
può circondar di perle i versi miei.
Parnaso in te conosce il suo decoro;
e con ragione un Benedetto sei,
se del tuo ferro un idolatra è l’oro.
Sonetti del signor Benedetto Ferrari
In lode de’ signori musici più celebri, ch’intervennero nell’Andromeda.
Al sig, don Annibale Graselli da Città di Castello;
che rappresentò Mercurio, Perseo, ed Ascalà.
Se pronto ambasciator per l’aria a volo
ne givi a cenni, di alcun nume, o diva,
da dolce impeto tratti ti seguiva
d’anime, e cori innamorati un stuolo.
Se dall’alto scendevi eterno polo,
e ‘l mostro reo la lancia tua feriva,
la tenzon sì mirabil riusciva,
che facevi gioir fra l’armi, e ‘l duolo.
Se spiegavi il tuo dir, nunzio dolente,
fin da le selci ne traevi il pianto,
non che dagl’occhi dell’umana gente.
Di due grandi Annibal diasi pur vanto
la prisca etate, il secolo presente,
l’un nell’armi divin, l’altro nel canto.
Per l’Andromeda
Del sig. Benedetto Ferrari; rappresentata in Venezia.
Parti fuor d’Etiopia, e fermi il piede,
ov’han liberi eroi su l’onde il regno
(peregrina infelice) e l’atto indegno
de le sventure tue teco ne riede.
Svelto il lido a seguirti esser ti crede,
e qual scena, di Giun serve a lo sdegno,
ch’in te, diva al poter, fera all’ingegno,
numi, e mostri eccitar pronta si vede.
Libra il fato i tuoi casi, e la tua sorte;
esposta al cielo, e condannata al mare
di là la vita, e di qui la morte.
Giudice l’occhio in quel momento appare,
che con Ferro celeste un guerrier forte
ti lascia in vita eternamente andare.
Don Donato Milcetti da Faenza.
Per l’Andromeda
Atto primo
Scena prima
Giunone, Mercurio.
GIUNONE
Dunque donna mortale
la mia bellezza vilipende, e scherne?
La severa Giunone,
la reina de’ nembi,
la consorte di Giove
femina vile oltraggia? e vilipesa,
e schernita rimango?
Ah pria che Febo il piè nel mar ritiri
vuò, che più d’un per me pianga, e sospiri.
Poco animato fango
con sue sozzure (o meraviglia) move
alle celesti immagini contesa;
volto cui marcir deve in sepoltura
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