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Libretto “La forza del destino” di Giuseppe Verdi

La forza del destino

Opera in quattro atti

Musica di Giuseppe Verdi
Libretto di Francesco Maria Piave

Fonti letterarie Don Álvaro o la Fuerza del sino di A. Saavedra, duca di Rivas.
Prima rappresentazione: 10 novembre 1862, Teatro Imperiale, San Pietroburgo.

Personaggi

Il Marchese Di Calatrava, Basso
Leonora,                                              Soprano
suoi figli,
Don Carlo di Vargas,                Baritono
Don Alvaro, Tenore
Preziosilla, giovane zingara, Mezzo-Soprano
Padre Guardiano,                                 Basso profondo
} Francescani,
Fra Melitone,                                        Baritono brillante
Curra, cameriera di Leonora, Mezzo-Soprano
Un Alcade, Basso
Mastro Trabuco, mulattiere, poi, rivendugliolo, Tenore
Un Chirurgo militare spagnuolo, Tenore
Coristi: Mulattieri, Peasani spagnuoli e italiani; Soldati spagnuoli e italiani d’ogni arma; Ordinanze relative; Reclute italiane; Frati Francescani; Poveri questuanti.
Coriste: Paesane e Vivandiere spagnuole ed italiane; Povere questuanti.
Ballo: Paesani, Paesane e Vivandiere spagnuole ed italiane; Soldati spagnuoli ed italiani.
Comparse: Oste, Ostessa; Servi d’osteria; Mulattieri, Soldati italiani e spagnuoli d’ogni arma; Tamburini; Trombe; Paesane e Fanciulli delle due nazioni; Saltimbanco; Venditori d’ogni specie.

Spagna e Italia.
Verso la metà del XVIII secolo.

Libretto – La forza del destino

Atto Primo
Scena I

Siviglia. Una sala tappezzata di damasco con ritratti di famiglia ed arme gentilzie, addobbata nello stile del secolo XVIII, però in cattivo stato. Di fronte, due finestre; quella a sinistra chiusa, l’altra a destra aperta e praticabile, dalla quale si vede un cielo purissimo, illuminato dalla luna, e cime d’alberi. Tra le finestre è un grande armadio chiuso, contenente vesti, biancherie, ecc. Ognuna delle pareti laterali ha due porte. La prima a destra dello spettatore è la comune; la seconda mette alla stanza di Curra. A sinistra in fondo è l’appartamento del Marchese, più presso al proscenio quello di Leonora. A mezza scena, alquanto a sinistra, è un tavolino coperto da tappeto di damasco, e sopra il medesimo una chitarra, vasi di fiori, due candelabri d’argento accesi con paralumi, sola luce che schiarirà la sala. Un seggiolone presso il tavolino; un mobile con sopra un oriuolo fra le due porte a destra; altro mobile sopra il quale è il ritratto tutta figura, del Marchese appoggiato alla parete sinistra. La sala sarà parapettata.
Il Marchese di Calatrava, con lume in mano, sta congendandosi da Donna Leonora preoccupata. Curra viene dalla sinistra.

MARCHESE: (abbracciandola con affetto)
Buona notte, mia figlia. Addio, diletta . . .
Aperto ancora è quel veron.
(Va a chiuderlo)

LEONORA: (fra sé)
Oh, angoscia!

MARCHESE:
Nulla dice il tuo amor?
Perché sì triste?

LEONORA:
Padre . . . signor . . .

MARCHESE:
La pura aura de’ campi
pace al tuo cor donava.
Fuggisti lo straniero di te indegno.
A me lascia la cura dell’avvenir;
nel padre tuo confida che t’ama tanto.

LEONORA:
Ah, padre!

MARCHESE:
Ebben, che t’ange? Non pianger.

LEONORA: (fra sé)
Oh, rimorso!

MARCHESE:
Ti lascio.

LEONORA: (gettandosi con effusione tra le braccia del padre)
Ah, padre mio!

MARCHESE:
Ti benedica il cielo.
Addio.

LEONORA:
Addio.

(Il Marchese bacia Leonora e va nelle sue stanze).

Atto Primo
Scena II

Curra segue il Marchese, chiude la porta ond’è uscito, e riviene a Leonora abbandonatasi sul seggiolone piangente

CURRA:
Temea restasse qui fino a domani.
Si riapre il veron.
Tutto s’appronti, e andiamo.
(Toglie dall’armadio un sacco da notte in cui ripone biancherie e vesti)

LEONORA:
E si amoroso padre,
avverso fia tanto ai voti miei?
No, no, decidermi non so.

CURRA:
Che dite?

LEONORA:
Quegli accenti nel cor,
come pugnali scendevanmi. Se ancor restava,
appreso il ver gli avrei . . .

CURRA: (smettendo il lavoro)
Domani allor nel sangue suo saria Don Alvaro, od a
Siviglia prigioniero, e forse al patibol poi!

LEONORA:
Taci.

CURRA:
E tutto questo perché ei volle amar chi non l’amava.

LEONORA:
Io non amarlo?
Tu ben sai s’io l’ami . . .
Patria, famiglia, padre per lui non abbandono?
Ahi, troppo, troppo sventurata sono!
Me, pellegrina ed orfana,
Lungi dal patrio nido.
Un fato inesorabile
Sospinge a stranio lido;
Colmo di triste immagini,
Da’ suoi rimorsi affranto.
È il cor di questa misera
Dannato a eterno pianto, ecc.
Ti lascio, ahimé, con lacrime,
Dolce mia terra, addio;
Ahimé, non avrà termine
Per mi sì gran dolore! Addio.

CURRA:
M’aiuti, signorina, più presto andrem.

LEONORA:
S’ei non venisse?
(Guarda l’orologio)
È tardi. Mezzanotte è suonata!
(contenta)
Ah no, più non verrà!

CURRA:
Qual rumore?
Calpestio di cavalli!

LEONORA: (corre al verone)
È desso!

CURRA:
Era impossibil
ch’ei non venisse!

LEONORA:
Ciel!

CURRA:
Brando al timore.

Atto Primo
Scena III

Detti. Don Alvaro senza mantello, con giustacuore a maniche larghe, e sopra una giubbetta da Majo, rete sul capo, stivali, speroni, entra dal verone e si getta tra le braccia di Leonora

ALVARO:
Ah, per sempre, o mio bell’angiol,
Ne congiunge il cielo adesso!
L’universo in questo amplesso
Io mi veggo giubilar.

LEONORA:
Don Alvaro!

ALVARO:
Ciel, che t’agita?

LEONORA:
Presso è il giorno.

ALVARO:
Da lung’ora
Mille inciampi tua dimora
M’han vietato penetrar;
Ma d’amor si puro e santo
Nulla opporsi può all’incanto,
E Dio stesso il nostro palpito
In letizia tramutò.
(a Curra)
Quelle vesti dal verone getta.

LEONORA: (a Curra)
Arresta.

ALVARO: (a Curra)
No, no . . .
(a Leonora)
Seguimi,
Lascia omai la tua prigione.

LEONORA:
Ciel, risolvermi non so.

ALVARO:
Pronti destrieri di già ne attendono,
Un sarcerdote ne asspetta all’ara.
Vieni, d’amore in sen ripara
Che Dio dal ciel benedirà!
E quando il sole, nume dell’India,
Di mia regale stirpe signore,
Il mondo innondi del suo splendore,
Sposi, o diletta, ne troverà.

LEONORA:
È tarda l’ora.

ALVARO: (a Curra)
Su, via, t’affretta.

LEONORA: (a Curra)
Ancor sospendi.

ALVARO:
Eleonora!

LEONORA:
Diman . . .

ALVARO:
Che parli?

LEONORA:
Ten prego, aspetta.

ALVARO:
Diman!

LEONORA:
Dimani si partirà.
Anco una volta il padre mio,
Povero padre, veder desio;
E tu contento, gli è ver, ne sei?
Sì, perché m’ami, né opporti dei;
Anch’io, tu il sai, t’amo io tanto!
Ne son felice, oh cielo, quanto!
Gonfio di gioia ho il cor! Restiamo . . .
Sì mio Alvaro, io t’amo, io t’amo!
(Piange)

ALVARO:
Gonfio hai di gioia il core, e lagrimi!
Come un sepolcro tua man è gelida!
Tutto comprendo, tutto, signora!

LEONORA:
Alvaro! Alvaro!

ALVARO:
Eleonora!
Io sol saprò soffrire. Tolga Iddio
Che i passi miei per debolezza segua;
Sciolgo i tuoi giuri. Le nuziali tede
Sarebbero per noi segnal di morte
Se tu, com’io, non m’ami, se pentita . . .

LEONORA:
Son tua, son tua col core e colla vita!
Seguirti, fino agli ultimi
Confini della terra;
Con te sfidar, impavida
Di rio destin, la guerra,
Mi fia perenne gaudio
D’eterea voluttà.
Ti seguo. Andiam,
Dividerci il fato non potrà.

ALVARO:
Sospiro, luce ed anima
Di questo cor che t’ama.
Finché mi batte un palpito
Far paga ogni tua brama
Il solo ed immutabile
Desio per me sarà.
Mi segui. Andiam,
Dividerci il fato non potrà.

(S’avvicinano al verone, quando ad un tratto si sente a sinistra un aprire e chiuder di porte)

LEONORA:
Qual rumor!

CURRA: (ascoltando)
Ascendono le scale!

ALVARO:
Partiam . . .

LEONORA:
Partiam.

ALVARO e LEONORA:
Mi segui / Ti seguo. Andiam.
Dividerci il fato non potrà.

LEONORA:
È tardi.

ALVARO:
Allor di calma è duopo.

CURRA:
Vergin santa!

LEONORA: (a Don Alvaro)
Colà t’ascondi.

ALVARO: (traendo una pistola)
No. Difenderti degg’io.

LEONORA:
Ripon quell’arma. Contro al genitore
Vorresti? . . .

ALVARO:
No, contro me stesso!

LEONORA:
Orrore!

Atto Primo
Scena IV

Dopo vari colpi, apresi con istrepito la porta, ed il Marchese di Calatrava entra infuriato, brandendo una spada e seguito da due servi con lumi

MARCHESE:
Vil seduttor! Infame figlia!

LEONORA: (correndo a suoi piedi)
No, padre mio.

MARCHESE:
Io più nol sono.

ALVARO:
Il solo colpevole son io.
(presentandogli il petto)
Ferite, vendicatevi.

MARCHESE:
No, la condotta vostra
Da troppo abbietta origine
Uscito vi dimostra.

ALVARO: (risentito)
Signor Marchese!

MARCHESE: (a Leonora)
Scostati.
(ai servi)
S’arresti l’empio.

ALVARO: (cavando nuovamente la pistola)
Guai se alcun di voi si muove.

LEONORA: (correndo a lui)
Alvaro, oh ciel, che fai?

ALVARO: (al Marchese)
Cedo a voi sol, ferite.

MARCHESE:
Morir per mano mia!
Per mano del carnefice
Tal vita spenta sia!

ALVARO:
Signor di Calatrava!
Pura siccome gli angeli
È vostra figlia, il giuro;
Reo sono io solo. Il dubbio
Che l’ardir mio qui desta.
Si tolga colla vita. Eccomi inerme.

(Getta via la pistola che, cadendo al suolo scarica il colpo, e ferisce mortalmente il Marchese)

MARCHESE:
Io muoio!

ALVARO: (disperato)
Arma funesta!

LEONORA: (correndo al padre)
Aita!

MARCHESE: (a Leonora)
Lungi da me.
Contamina tua vista la mia morte!

LEONORA:
Padre!

MARCHESE:
Ti maledico!
(Cade tra le braccia dei servi)

LEONORA:
Cielo, pietade!

ALVARO:
Oh, sorte!

(I servi portano via il Marchese, mentre Don Alvaro trae seco verso il verone la sventurata Leonora)

Atto SECONDO
Scena I

Villaggio d’Hornachuelos e vicinanze. Grande cucina d’un osteria a pian terreno. A sinistra la porta d’ingresso che dà sulla via; di fronte una finestra ed un credenzone con piatti, ecc. A destra in fondo un gran focolare ardente con varie pentole; più vicino alla boccascena breve scaletta che mette ad una stanza la cui porta è praticabile.
Da un lato, gran tavola apparecchiata con sopra una lucerna accesa. L’oste e l’ostessa, che non parlano, sono affacendati ad ammanir la cena. L’Alcade è seduto presso al foco; Don Carlo, vestito da studente, è presso la tavola. Alquanti mulattieri fra i quali Mastro Trabuco, ch’è al dinanzi sopra un suo basto. Due contadini, due contadine, la serva ed un mulattiere ballano la Seguidilla. Sopra altra tavola, vino, bicchieri, fiaschi, una bottiglia d’acquavite.

L’alcade, uno studente, Mastro Trabuco, Mulattieri, Paesani, Famigli, Paesane, ecc.
Tre coppie ballano la Seguidilla. A tempo Leonora in veste virile.

CORO:
Holà, holà, holà!
Ben giungi, o mulattier,
La notte a riposar.
Holà, holà, holà!
Qui devi col bicchier
Le forze ritemprar.

(L’ostessa mette sulla travola una grande zuppiera)

ALCADE: (sedendosi alla mensa)
La cena è pronta.

CORO: (prendendo posto presso la tavola)
A cena, a cena.

CARLO: (fra sé)
Ricerco invan la suora e il seduttore.
Perfidi!

CORO: (all’Alcade)
Voi la mensa benedite.

ALCADE:
Può farlo il licenziato.

CARLO:
Di buon grado.
In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.

CORO: (sedendo)
Amen.

LEONORA: (presentandosi alla porta vestita da uomo)
Che vedo! Mio fratello!
(Si ritira. L’ostessa avrà già distrbuito il riso e siede con essi. Trabuco è in disparte, sempre appoggiato al suo basto)

ALCADE: (assaggiando)
Buono.

CARLO: (mangiando)
Eccellente.

MULATTIERI:
Par che dica, “Mangiami”.

CARLO: (all’ostessa)
Tu das epulis accumbere Divum.

ALCADE:
Non sa il Latino, ma cucina bene.

CARLO:
Viva l’ostessa!

TUTTI:
Evviva!

CARLO:
Non vien, Mastro Trabuco?

TRABUCO:
È venerdì.

CARLO:
Digiuna?

TRABUCO:
Appunto.

CARLO:
E qella personcina
Con lei giunta? . . .

Atto SECONDO
Scena II

Detti e Preziosilla che entra saltellando

PREZIOSILLA:
Viva la guerra!

TUTTI:
Preziosilla! Brava, brava!

CARLO e CORO:
Qui, presso a me . . .

TUTTI:
Tu la ventura dirne potrai.

PREZIOSILLA:
Chi brama far fortuna?

TUTTI:
Tutti il vogliamo.

PREZIOSILLA:
Correte allor soldati
In Italia, dov’è rotta la guerra
contro il Tedesco.

TUTTI:
Morte
Ai Tedeschi!

PREZIOSILLA:
Flagel d’Italia eterno,
E de figlioli suoi.

TUTTI:
Tutti v’andremo.

PREZIOSILLA:
Ed io sarò con voi.

TUTTI:
Viva!

PREZIOSILLA:
Al suon del tamburo,
Al brio del corsiero,
Al nugolo azzurro
Del bronzo guerrier;
Dei campi al sussurro
S’esalta il pensiero!
È bella la guerra, è bella la guerra!
Evviva la guerra, evviva!

TUTTI:
È bella la guerra, evviva la guerra!

PREZIOSILLA:
È solo obliato
Da vile chi muore;
Al bravo soldato,
Al vero valor
È premio serbato
Di gloria, d’onor!
È bella la guerra! Evviva la guerra! ecc.

TUTTI:
È bella la guerra! Evviva la guerra! ecc.

PREZIOSILLA: (volgendosi all’uno e all’altro)
Se vieni, fratello,
Sarai caporale;
E tu colonnello,
E tu generale;
Il dio furfantello
Dall’arco immortale
Farà di cappello
Al bravo uffiziale.
È bella la guerra, evviva la guerra!

TUTTI:
È bella la guerra, evviva la guerra!

CARLO: (presentandole la mano)
E che riserbasi allo studente?

PREZIOSILLA: (guardando la mano)
Ah, tu miserrime vicende avrai.

CARLO:
Che di’?
PREZIOSILLA: (fissandolo)
Non mente il labbro mai.
(poi, sottovoce)
Ma a te, carissimo,
Non presto fé.
Non sei studente,
Non dirò niente,
Ma, gnaffe, a me
Non se la fa,
Tra la la la!

Atto SECONDO
Scena III

Detti e Pellegrini che passano da fuori

CORO DI PELLEGRINI: (fuori)
Padre Eterno Signor,
Pietà di noi,
Divin Figlio Signor,
Pietà di noi.
Santo Spirito Signor,
Pietà di noi.
Uno e Trino Signor,
Pietà di noi.

TUTTI: (alzandosi e scoprendosi la testa)
Chi sono?

ALCADE:
Son pellegrini che vanno al giubileo.

LEONORA: (ricomparendo agitatissima sulla porta)
Fuggir potessi!

DON CARLO, MULATTIERI:
Che passino attendiamo.

ALCADE:
Preghiam con lor.

TUTTI:
Preghiamo.
(Lasciano la mensa e s’inginocchiano)
Su noi prostrati e supplici
Stendi la man, Signore;
Dall’infernal malore
Ne salvi tua bontà.
Signor, pietà!

LEONORA: (fra sé)
Ah, dal fratello salvami
Che anela il sangue mio;
Se tu nol vuoi, gran Dio,
Nessun mi salverà!
Signor, pietà!
(Leonora rientra nella stanza chiudendone la porta. Tutti riprendono i loro posti. Si passano un fiasco)

CARLO:
Viva la buona compagnia!

TUTTI:
Viva!

CARLO: (alzando il bicchiere)
Salute qui, l’eterna gloria poi.

TUTTI: (facendo altrettando)
Così sia.

CARLO:
Già cogli angeli, Trabuco?

TRABUCO:
E che? Con quest’inferno!

CARLO:
E quella personcina con lei giunta,
venne pel giubileo?

TRABUCO:
Nol so.

CARLO:
Per altro,
È gallo oppur gallina?

TRABUCO:
De’ viaggiator non bado
che al danaro.

CARLO:
Molto prudente!
(poi all’Alcade)
Ed ella che giungere la vide,
perché a cena non vien?

ALCADE:
L’ignoro.

CARLO:
Dissero chiedesse acqua ed aceto. Ah, ah!
Per rinfrescarsi.

ALCADE:
Sarà.

CARLO:
È ver che è gentile
E senza barba?

ALCADE:
Non so nulla.

CARLO: (fra sé)
Parlar non vuol!
(a Trabuco)
Ancora lei:
Stava sul mulo
Seduta o a cavalcioni?

TRABUCO: (impazientito)
Che noia!

CARLO:
Onde veniva?

TRABUCO:
So che andrò presto o tardi in Paradiso.

CARLO:
Perché?

TRABUCO:
Ella il Purgatorio mi fa soffrire.

CARLO:
Or dove va?

TRABUCO:
In istalla a dormir colle mie mule, che non san di
latino, né sono baccellieri.
(Prende il suo basto e parte)

Atto SECONDO
Scena IV

I Suddetti meno Mastro Trabuco

TUTTI:
Ah, ah! È fuggito!

CARLO:
Poich’è imberbe l’incognito, facciamgli col nero due
baffetti; doman ne rideremo.

TUTTI:
Bravo! Bravo!

ALCADE:
Protegger debbo i viaggiator; m’oppongo.
Meglio farebbe dirne d’onde venga, ove vada, e chi ella sia.

CARLO:
Lo vuoi saper? Ecco l’istoria mia.
Son Pereda, son ricco d’onore,
Baccelliere mi fe’ Salamanca;
Sarò presto in utroque dottore,
Che di studio ancor poco mi manca.
Di là Vargas mi tolse da un anno,
Ed a Siviglia con sé mi guidò.
Non astenne Pereda alcun danno,
Per l’amico il suo core parlò.
Della suora un amante straniero
Colà il padre gli avea trucidato,
Ed il figlio, da pro’ cavaliero,
La vendetta ne aveva giurato;
Gl’inseguimmo di Cadice in riva,
Né la coppia fatal si trovò.
Per l’amico Pereda soffriva,
Che il suo core per esso parlò.
Là e dovunque narrar che del pari
La sedotta col vecchio peria,
Che a una zuffa tra servi a sicari
Solo il vil seduttore sfuggìa.
Io da Vargas allor mi staccava,
Ei seguir l’assassino giurò.
Verso America il mare solcava,
E Pereda ai suoi studi tornò!

TUTTI:
Truce storia Pereda narrava!
Generoso il suo core mostrò.

ALCADE:
Sta bene.

PREZIOSILLA: (con finezza)
Ucciso fu quel Marchese?

CARLO:
Ebben? . . .

PREZIOSILLA:
L’assassino rapia sua figlia?

CARLO:
Sì.

PREZIOSILLA:
E voi, l’amico fido, cortese,
Andaste a Cadice e pria a Siviglia?
Ah, gnaffe, a me non se la fa,
Tra la la la!

(L’Alcade si alza e guarda l’oriuolo)

ALCADE:
Figliuoli, è tardi; poiché abbiam cenato,
sì rendan grazie a Dio, e partiamo.

PREZIOSILLA, CARLO e CORO:
Partiam, partiam, partiamo.
Buono notte, buona notte.

TUTTI:
Holà! Holà! È l’ora di riposar.
Allegri, o mulattier! Holà!

CARLO:
Son Pereda, son ricco d’onore, ecc.

ALCADE:
Sta ben.

PREZIOSILLA:
Ah, tra la la la!
Ma, gnaffe, a me no se la fa.

TUTTI:
Buon notte. Andiam, andiam.

Atto SECONDO
Scena V

Una piccola spianata sul declivio di scoscesa montagna. A destra precipizii e rupi; di fronte la facciata della chiesa della Madonna degli Angeli; a sinistra la porta del Convento, in mezzo alla quale una finestrella; da un lato la corda del campanello. Sopra vi è una piccola tettoia sporgente. Al di là della chiesa alti monti col villaggio d’Hornachuelos. La porta della chiesta è chiusa, ma larga, sopra dessa una finestra semicircolare lascerà vedere la luce interna. A mezza scena, un po’ a sinistra, sopra quattro gradini s’erge una rozza croce di pietra corrosa dal tempo. La scena sarà illuminata da luna chiarissima. Donna Leonora giunge ascendendo dalla destra, stanca, vestita da uomo, con pastrano a larghe maniche, largo cappello e stivali.

Leonora

LEONORA:
Sono giunta! Grazie, o Dio!
Estremo asil guesto è per me!
Son giunta! Io tremo! La mia orrenda storia è nota
in quell’albergo, e mio fratel narrolla!
Se scoperta m’avesse! Cielo! Ei disse naviga
vers’ occaso. Don Alvaro! Né morto cadde quella
notte in cui io, io del sangue di mio padre intrisa,
l’ho seguito e il perde! Ed or mi lascia, mi fugge!
Ohimé, non reggo a tanta ambascia.
(Cade in ginocchio)
Madre, pietosa Vergine,
Perdona al mio peccato,
M’aita quel ingrato
Dal core a cancellar.
In queste solitudini
Espierò l’errore,
Pietà di me, Signore.
Deh, non m’abbandonar!
(L’organo accompagna il canto mattutino dei frati)
Ah, quei sublimi cantici,
(Si alza)
Dell’organo i concenti,
Che come incenso ascendono
A Dio sui firmamenti,
inspirano a quest’alma
Fede, conforto e calma!

CORO DEI FRATI: (interno)
Venite, adoremus et procedamus ante Deum,
Ploremus, ploremus coram Domino, coram
Domino qui fecit nos.

LEONORA: (S’avvia)
Al santo asilo accorrasi.
E l’oserò a quest’ora?
Alcun potria sorprendermi!
O misera Leonora, tremi?
Il pio frate accoglierti no, non ricuserà.
Non mi lasciar, soccorrimi, pietà Signor, pietà!
Deh, non m’abbandonar!

FRATI:
Ploremus, ploremus coram Domino qui fecit nos.
(Leonora va a suonare il campanello del convento).

Atto SECONDO
Scena VI

Si apre la finestrella della porta e n’esce la luce d’una lanterna che riverbera sul volto di Donna Leonora la quale si arretra, spaventata. Fra Melitone parla sempre dall’interno

Melitone, Leonora

MELITONE:
Chi siete?

LEONORA:
Chiedo il Superiore.

MELITONE:
S’apre alle cinque la chiesa,
Se al giubileo venite.

LEONORA:
Il Superiore, per carità,

MELITONE:
Che carità a quest’ora!

LEONORA:
Mi manda il Padre Cleto.

MELITONE:
Quel santo uomo? Il motivo?

LEONORA:
Urgente.

MELITONE:
Perché mai?

LEONORA:
Un infelice . . .

MELITONE:
Brutta solfa . . .
Però v’apro ond’entriate.

LEONORA:
Nol posso.

MELITONE:
No? Scomunicato siete? Che strano fia aspettare a
ciel sereno. V’annuncio, e se non torno, buona notte.
(Chiude la finestrella)

Atto SECONDO
Scena VII

Donna Leonora sola

LEONORA:
Ah, s’ei mi respingesse! Fama pietoso il dice; ei mi
proteggerà. Vergin m’assisti.

Atto SECONDO
Scena VIII

Donna Leonora, il Padre Guardiano e Fra Melitone

GUARDIANO:
Chi mi cerca?

LEONORA:
Son io.

GUARDIANO:
Dite.

LEONORA:
Un segreto . . .

GUARDIANO:
Andate, Melitone.

MELITONE: (partendo, fra sé)
Sempre segreti! E questi santi soli han da saperli!
Noi siamo tanti cavoli.

GUARDIANO:
Fratello, mormorate?

MELITONE:
Oibò, dico ch’é pesante la porta e fa rumore.

GUARDIANO:
Obbedite.

MELITONE: (fra sé)
Che tuon da Superiore!
(Rientra nel convento socchiudendone la porta)

Atto SECONDO
Scena IX

GUARDIANO:
Or siam soli.

LEONORA:
Una donna son io.

GUARDIANO:
Una donna a quest’ora!
Gran Dio!

LEONORA:
Infelice, delusa, rejetta,
Dalla terra e del ciel maledetta,
Che nel pianto protratavi al piede,
Di sottrala all’inferno vi chiede.

GUARDIANO:
Come un povero frate lo può?

LEONORA:
Padre Cleto un suo foglio v’inviò?

GUARDIANO:
Ei vi manda?

LEONORA:
Sì.

GUARDIANO: (sorpreso)
Dunque voi siete
Leonora di Vargas!

LEONORA:
Fremete!

GUARDIANO:
No, venite fidente alla croce,
Là del cielo v’ispiri la voce.

(Leonora s’inginocchia presso la croce, la bacia, quindi torna al Padre Guardiano)

LEONORA:
Più tranquilla, l’alma sento
Dacché premo questa terra;
De’ fantasmi lo spavento
Più non provo farmi guerra . . .
Più non sorge sanguinante
Di mio padre l’ombre innante,
Né terribile l’ascolto
La sua figlia maledir.

GUARDIANO:
Sempre indarno qui rivolto
Fu di Satana l’ardir.

LEONORA:
Perciò tomba qui desio
Fra le rupi ov’altra visse.

GUARDIANO:
Che! Sapete?

LEONORA:
Cleto il disse.

GUARDIANO:
E volete . . .

LEONORA:
Darmi a Dio.

GUARDIANO:
Guai per chi si lascia illudere
Dal delirio d’un momento!
Più fatal per voi sì giovane
Giungerebbe il pentimento.

LEONORA:
Ah, tranquilla l’alma sento, ecc.

GUARDIANO:
Guai per chi si lascia illudere. Guai!
Chi può leggere il futuro?
Chi immutabil farvi il core?
E l’amante?

LEONORA:
Involontario
M’uccise il genitor.

GUARDIANO:
E il fratello?

LEONORA:
La mia morte
Di sua mano egli giurò.

GUARDIANO:
Meglio a voi le sante porte
Schiuda un chiostro.

LEONORA:
Un chiostro? No!
Se voi scacciate questa pentita
Andrò per balze, girdando aita,
Ricovro ai monti, cibo alle selve.
E fin le belve ne avran pietà.
Ah, sì, del cielo qui udii la voce:
“Salvati all’ombra di questa croce.”
Voi mi scacciate? È questo il porto.
Chi tal conforto mi toglierà?

GUARDIANO:
A te sia gloria, o Dio clemente,
Padre dei miseri onnipossente.
A cui sgabello sono le sfere!
Il tuo volere si compirà!
È fermo il voto?

LEONORA:
È fermo.

GUARDIANO:
V’accolga dunque Iddio.

LEONORA:
Bontà divina!

GUARDIANO:
Sol io saprò chi siate. Tra le rupi è uno speco; ivi
starete. Presso una fonte, al settimo dì, scarso cibo
porrovvi io stesso.

LEONORA:
V’andiamo.

GUARDIANO: (verso la porta)
Melitone?
(a Melitone che comparisce)
Tutti i fratelli con ardenti ceri,
Dov’ è l’ara maggiore,
Nel tempio si raccolgan del Signore.
(Melitone rientra)
Sull’alba il piede all’eremo
Solinga volgerete;
Ma pria dal pane angelico
Conforto all’alma avrete.
Le sante lane a cingere
Ite, e sia forte il cor.
Sul nuovo calle a reggervi
V’assisterà il Signor.

(Entra nel Convento, e ne ritorna subito portando un abito da Francescano che presenta a Leonora)

LEONORA:
Tua grazia, o Dio.
Sorride alla regetta!
O, gaudio insolito!
Io son ribenedetta!
Già sento in me rinascere
A nuova vita il cor;
Plaudite, o cori angelici,
Mi perdonò il Signor.
(Entrano nella stanza del portinaio).

Atto SECONDO
Scena X

La gran porta della chiesa si apre. Di fronte vedesi l’altar maggiore illuminato. L’organo suona. Dai lati del coro procedono due lunghe file di Frati, con ceri ardenti, che s’inginocchiano dalle due parti. Più tardi il Padre Guardiano precede Leonora, in abito da frate, che s’inginocchia al pié dell’altare e riceve da lui la Communione. Egli la conduce fuor della chiesa, i Frati gli si schierano intorno. Leonora si prostra innanzi a lui che, stendendo solennemente le mani sopra il suo capo, intuona:

GUARDIANO:
Il santo nome di Dio Signore
Sia benedetto.

CORO:
Sia benedetto.

GUARDIANO:
Un’alma a piangere viene l’errore,
Tra queste balze chiede ricetto;
Il santo speco noi le schiudiamo.
V’è noto il loco?

CORO:
Lo conosciamo.

GUARDIANO:
A quell’asilo, sacro, inviolato,
Nessun si appressi.

CORO:
Obbediremo.

GUARDIANO:
Il cinto umile non sia varcato
Che nel divide.

CORO:
Nol varcheremo.

GUARDIANO:
A chi il divieto
Frangere osasse.
O di quest’alma
Scoprir tentasse
Nome o mistero:
Maledizione!

CORO:
Maledizione!
Maledizione!
Il cielo fulmini,
Incenerisca,
L’empio mortale
Se tanto ardisca;
Su lui scatenisi
Ogni elemento,
L’immonda cenere
Ne sperda il vento.

GUARDIANO: (a Leonora)
Alzatevi e partite. Alcun vivente
Più non vedrete. Dello speco il bronzo
Ne avverta se periglio vi sovrasti,
O per voi giunto sia l’estremo giorno . . .
A confortarvi l’alma volerem
Pria che a Dio faccia ritorno.

TUTTI:
La Vergine degli Angeli
Vi copra del suo manto,
E voi protegga vigile
Di Dio l’Angelo santo.

LEONORA:
La Vergine degli Angeli
Mi copra del suo manto.
E mi protegga vigile
Di Dio l’Angelo santo.

TUTTI:
La Vergine degli Angeli, ecc.

(Leonora bacia la mano del Padre Guardiano, e s’avvia all’eremo, sola. I frati spentii lumi, rientrano collo stesso ordine in chiesa. Il Guardiano si ferma sulla porta e stendendo le braccia verso la parte ov’è scomparsa Leonora, la benedice)


Atto TERZO
Scena I

In Italia presso Velletri. Bosco. Notte oscurissima. Don Alvaro, in uniforme di capitano spagnuolo dei Granatieri del Re, si avanza lentamente dal fondo. Si sentono voci interne a destra.

CORO:
Attenti al gioco, attenti, attenti al gioco, attenti . . .

PRIMA VOCE:
Un asso a destra.

SECONDA VOCE:
Ho vinto.

PRIMA VOCE:
Un tre alla destra.
Cinque a manca.

SECONDA VOCE:
Perdo.

ALVARO:
La vita è inferno all’infelice.
Invano morte desio!
Siviglia!
Leonora!
Oh, rimembranza! Oh, notte
Ch’ogni ben mi rapisti!
Sarò infelice eternanmente, è scritto.
Della natal sua terra il padre volle
Spezzar l’estranio giogo,
E coll’unirsi
All’ultima dell’Incas la corona
Cingere confidò.
Fu vana impresa.
In un carcere nacqui;
M’educava il deserto;
Sol vivo perchÈ ignota
È mia regale stirpe!
I miei parenti
Sognaro un trono, e li destò la scure!
Oh, quando fine avran
Le mie sventure!
O tu che seno agli angeli
Eternamente pura,
Salisti bella, incolume
Dalla mortal jattura,
Non iscordar di volgere
Lo sguardo a me tapino,
Che senza nome ed esule,
In odio del destino,
Chiedo anelando,
Ahi misero,
La morte d’incontrar.
Leonora mia, soccorrimi,
Pietà del mio penar!
Pietà di me!

CARLO: (dall’interno)
Al tradimento!

VOCI:
Muoia!

ALVARO:
Quali grida!

CARLO:
Aita!

ALVARO:
Si soccorra.

VOCI:
Muoia! Muoia!

(Accorre al luogo onde si udivano le grida; si sente un picchiare di spade, alcuni ufficiali attraversando la scena fuggendo in disordine da destra a sinistra).

Atto TERZO
Scena II

Don Alvaro ritorna con Don Carlo

ALVARO:
Fuggir! Ferito siete?

CARLO:
No, vi debbo la vita.

ALVARO:
Chi erano?

CARLO:
Assassini.

ALVARO:
Presso al campo così?

CARLO:
Franco dirò: fu alterco al gioco.

ALVARO:
Comprendo, colà, a destra.

CARLO:
Sì.

ALVARO:
Ma come, si nobile d’aspetto, a quella bisca
scendeste?

CARLO:
Nuovo sono.
Con ordini del general sol ieri
giunsi; senza voi morto sarei.
Or dite a chi debbo la vita?

ALVARO:
Al caso . . .

CARLO:
Pria il mio nome dirò. (Non sappia il vero)
Don Felice de Bornos, aiutante del duce.

ALVARO:
Io, Capitan dei Granatieri,
Don Federico Herreros.

CARLO:
La gloria dell’esercito!

ALVARO:
Signore . . .

CARLO:
Io l’amistà ne ambia; la chiedo e spero.

ALVARO:
Io pure della vostra sarò fiero.
(Si danno la destra)

A 2:
ALVARO e CARLO:
Amici in vita e in morte
Il mondo ne vedrà.
Uniti in vita e in morte
Entrambi troverà.

VOCI INTERNO: (Si odono voci interne e squilli di trombe)
Andiamo, all’armi!

CARLO:
Con voi scendere al campo d’onor, emularne
l’esempio potrò.

ALVARO:
Testimone del vostro valor
Ammirarne le prove saprò.

CORO:
All’armi!
(Escono correndo)

Atto TERZO
Scena III

È il mattino. Salotto nell’abitazione d’un ufficiale superiore dell’esercito spagnuolo in Italia non lungi da Velletri. Nel fondo sonvi due porte, quella a sinistra mette ad una stanza da letto, l’altra è la comune. A sinistra presso il proscenio è una finestra. Si sente il rumore della vicina battaglia. Un Chirurgo militare ed alcuni Soldati ordinanze dalla comune corrono alla finestra.

SOLDATI:
Arde la mischia.

CHIRURGO: (guardando con un canocchiale)
Prodi i granatieri!

SOLDATI:
Li guida Herreros.

CHIRURGO:
Ciel! . . . Ferito ei cadde! . . .
Piegano i suoi! . . .
L’aiutante li raccozza,
Alla carica li guida! . . .
Già fuggono i nemici.
I nostri han vinto!

VOCI: (di fuori)
A Spagna gloria!

ALTRE VOCI:
Viva l’Italia!

TUTTI:
È nostra la vittoria!

CHIRURGO:
Portan qui ferito il Capitano.

Atto TERZO
Scena IV

Don Alvaro, ferito e svenuto, è portato in una lettiga da quattro Granatieri. Da un lato è il Chirurgo, dall’altro è Don Carlo, coperto di polvere ed assai afflitto. Un Soldato depone una valigia sopra un tavolino. La lettiga è collocata quasi nel mezzo della scena.

CARLO:
Piano . . . qui posi . . .
Approntisi il mio letto.

CHIRURGO:
Silenzio.

CARLO:
V’ha periglio?

CHIRURGO:
La piaga che ha nel petto mi spaventa.

CARLO:
Deh, il salvate.

ALVARO: (rinvenendo)
Ove son?

CARLO:
Presso l’amico.

ALVARO:
Lasciatemi morire.

CARLO:
Vi salveran le nostre cure.
Premio
L’Ordine vi sarà di Calatrava.

ALVARO:
Di Calatrava! Mai! Mai!

CARLO: (fra sé)
Che!
Inorridì di Calatrava al nome!

ALVARO:
Amico . . .

CHIRURGO:
Se parlate . . .

ALVARO:
Un detto sol . . .

CARLO: (al chirurgo)
Ven prego ne lasciate.

(Il chirurgo si ritira. Don Alvaro accenna a Don Carlo di appressarsegli)

ALVARO:
Solenne in quest’ora
Giurami dovete
Far pago un mio voto.

CARLO:
Lo giuro.

ALVARO:
Sul core cercate.

CARLO:
Una chiave.

ALVARO:
(indicando la valigia)
Con essa trarrete
Un piego celato!
L’affido all’onore,
Colà v’ha un mistero
Che meco morrà.
S’abbruci me spento.

CARLO:
Lo giuro, sarà.

ALVARO:
Or muoio tranquillo;
Vi stringo al cor mio.

CARLO: (lo abbraccia con grande emozione)
Amico, fidate nel cielo!
Addio.

ALVARO:
Addio.

(Il chirurgo ed i soldati trasportano il ferito nella stanza da letto)

Atto TERZO
Scena V

CARLO:
Morir! Tremenda cosa!
Sì intrepido, sì prode, ei pur morrà! Uom singolar
costui! Tremò di Calatrava al nome. A lui palese n’ è
forse il disonor? Cielo! Qual lampo! S’ei fosse il seduttore?
Desso in mia mano, e vive! Se m’ingannassi?
Questa chiave il dica.
(Apre convulso la valigia, e ne trae un plico suggellato)
Ecco i fogli! Che tento!
(S’arresta)
E la fé che giurai? E questa vita che debbo al suo
valor? Anch’io lo salvo! S’ei fosse quell’ Indo
maledetto che macchiò il sangue mio? . . . Il suggello
si franga. Niun qui mi vede. No? Ben mi vegg’io!
(Getta il plico)
Urna fatale del mio destino,
Va, t’allontana, mi tenti invano;
L’onor a tergere qui venni, e insano
D’un onta nuova nol macchierò.
Un giuro è sacro per l’uom d’onore;
Que’ fogli serbino il lor mistero.
Disperso vada il mal pensiero
Che all’atto indegno mi concitò.
E s’altra prova rinvenir potessi?
Vediam.
(Torna a frugare nella valigia)
Qui v’ha un ritratto . . .
Suggel non v’é . . . nulla ei ne disse . . .
Nulla promisi . . . s’apra dunque . . .
Ciel! Leonora!
Don Alvaro è il ferito!
Ora egli viva, e di mia man poi muoia!
(Il chirurgo si presenta sulla porta della stanza)

CHIRURGO:
Lieta novella, è salvo!
(Esce)

CARLO:
È salvo! Oh gioia!
Egli è salvo! Gioia immensa
Che m’innondi il cor ti sento!
Potrò alfine il tradimento
Sull’infame vendicar.
Leonora, ove t’ascondi?
Di’: seguisti tra le squadre
Chi del sangue di tuo padre
Ti fe’ il volto rosseggiar?
Ah, felice appien sarei
Se potessi il brando mio
Ambedue d’averno al dio
D’un sol colpo consacrar!
(Parte precipitosamente)

Atto TERZO
Scena vI

Accampamento militare presso Velletri. Sul davanti a sinistra è una bottega da rigattiere; a destra un’altra ove si vendono cibi, bevande e frutta. All’ingiro sono tende militari, baracche di rivenduglioli, ecc. È notte; la scena è deserta. Una pattuglia entra cautamente in scena, esplorando il campo.

CORO:
Compagni, sostiamo,
Il campo esploriamo;
Non s’ode rumor,
Non brilla un chiarore;
In sonno profondo
Sepolto ognun sta.
Compagni, inoltriamo,
Il campo esploriamo,
Fra poco la sveglia
Suonare s’udrà.

Atto TERZO
Scena VII

Spunta l’alba lentamente. Entra Don Alvaro pensoso

ALVARO:
Né gustare m’ è dato
Un’ ora di quiete.
Affranta è l’alma dalla lotta crudel.
Pace ed oblio indarno io chieggo al cielo.

Atto TERZO
Scena VIII

Detto e Don Carlo

CARLO:
Capitano . . .

ALVARO:
Chi mi chiama?
(Riconosce Carlo)
Voi, che si larghe cure mi prodigaste.

CARLO:
La ferita vostra
Sanata è appieno?

ALVARO:
Sì.

CARLO:
Forte?

ALVARO:
Quale prima.

CARLO:
Sosterreste un duel?

ALVARO:
Con chi?

CARLO:
Nemici non avete?

ALVARO:
Tutti ne abbiam . . . ma a stento comprendo . . .

CARLO:
No? Messaggio non v’inviava
Don Alvaro, l’Indiano?

ALVARO:
Oh tradimento!
Sleale! Il segreto fu dunque violato?

CARLO:
Fu illeso quel piego,
L’effigie ha parlato.
Don Carlos di Vargas, tremate io sono.

ALVARO:
D’ardite minacce
Non m’agito al suono.

CARLO:
Usciamo all’istante.
Un deve morire.

ALVARO:
La morte disprezzo,
Ma duolmi inveire
Contr’uom che per primo
Amistade m’offria.

CARLO:
No, no, profanato
Tal nome non sia.

ALVARO:
Non io, fu il destino,
Che il padre v’ha ucciso.
Non io che sedussi
Quell’angiol d’amore.
Ne guardano entrambi,
E dal paradiso
Ch’io sono innocente
Vi dicono al core.

CARLO:
Adunque colei?

ALVARO:
La notte fatale
Io caddi per doppia
Ferita mortale;
Guaritone, un anno
In traccia ne andai,
Ahimé, ch’era spenta
Leonora trovai.

CARLO:
Menzogna, menzogna!
La suora –
Ospitavala antica parente.
Vi giunsi, ma tardi . . .

ALVARO:
Ed ella?

CARLO:
Fuggente.

ALVARO: (trasalendo)
E vive! Ella vive, gran Dio!

CARLO:
Sì, vive.

ALVARO:
Don Carlo, amico, il fremito
Ch’ogni mia fibra scuote,
Vi dica che quest’ anima
Infame esser non puote.
Vive! Gran Dio, quell’angelo . . .

CARLO:
Ma in breve morirà.
Ella vive, ma in breve morirà.

ALVARO:
No, d’un imene il vincolo
Stringa fra noi la speme;
E s’ella vive, insieme
Cerchiamo ove fuggì.
Giuro che illustre origine
Equale a voi mi rende,
E che il mio stemma splende
Come rifulge il di.

CARLO:
Stolto! Fra noi dischiudesi
Insanguinato avello.
Come chiamar fratello
Chi tanto a me rapì?
D’eccelsa o vile origine.
È d’uopo ch’io vi spegna,
E dopo voi l’indegna
Che il sangue suo tradi.

ALVARO:
Che dite?

CARLO:
Ella morrà.

ALVARO:
Tacete!

CARLO:
Il giuro a Dio: morrà l’infame.

ALVARO:
Voi pria cadrete nel fatal certame.

CARLO:
Morte! ov’io non cada esanime
Leonora giungerò
Tinto ancor del vostro sangue
Questo acciar le immergerò.

ALVARO:
Morte! Sì! Col brando mio
Un sicario ucciderò;
Il pensier volgete a Dio.
L’ora vostra alfin suonò.

TUTTI E DUE:
A morte! Andiam!
(Sguainano le spade e si battono furiosamente).

Atto TERZO
Scena IX

Accorre la pattuglia del campo a separarli

CORO:
Fermi! Arrestate!

CARLO: (furente)
No – la sua vita o la mia – tosto.

CORO:
Lunge di qua si tragga.

ALVARO: (fra sé)
Forse del ciel l’aita a me soccorre.

CARLO:
Colui morrà!

CORO: (a Carlo che cerca svincolarsi)
Vieni!

CARLO: (a Don Alvaro)
Carnefice del padre mio!

ALVARO:
Or che mi resta? Pietoso Iddio,
Tu ispira, illumina il mio pensier.
Al chiostro, all’eremo, ai santi altari
L’oblio, la pace chiegga il guerrier.

(Esce. Si allontanano poco a poco).

Atto TERZO
Scena X

Spunta il sole; il rullo dei tamburi e lo squillo delle trombe danno il segnale della sveglia. La scena va animandosi a poco a poco. Soldati spagnuoli ed italiani di tutte le armi sortono dalle tende ripulendo schioppi, spade, uniformi, ecc. Ragazzi militari giuocano ai dai sui tamburi. Vivandiere che vendono liquori, frutta, pane, ecc. girano per il campo. Preziosilla, dall’alto d’una bracca, predice la buona ventura. scena animatissima.

CORO:
Lorché pifferi e tamburi
Par che assordino la terra,
Siam felici, ch’è la guerra
Gioia e vita al militar.
Vita gaia, avventurosa,
Cui non cal doman né ieri,
Ch’ama tutti i suoi pensieri
Sol nell’oggi concentrar.

PREZIOSILLA: (alle donne)
Venite all’indovina,
Ch’è giunta di lontano,
E puote a voi l’arcano
Futuro decifrar.
(ai soldati)
Correte a lei d’intorno,
La mano le porgete,
Le amanti apprenderete
Se fide vi restâr.

CORO:
Andate/Andiamo all’indovina,
La mano le porgiamo/porgete,
Le belle udir possiamo
Se fide a voi restâr.

PREZIOSILLA:
Chi vuole il paradiso
s’accenda di valore,
e il barbaro invasore
s’accinga a debellar.
Avanti, avanti, avanti,
predirvi sentirete
qual premio coglierete
dal vostro battagliar,
ah! – qual premio coglierete
dal vostro battagliar.

SOLDATI:
Avanti, avanti, avanti,
predirci sentiremo
qual premio coglieremo
dal nostro battagliar.

VIVANDIERE:
Avanti, avanti, avanti,
predirivi sentirete
qual premio coglierete
dal vostro battagliar.

CORO: (circondandola)
Avanti, avanti, avanti.

SOLDATI:
Qua, vivandiere, un sorso.
(Le vivandiere versano loro)

UN SOLDATO:
Alla salute nostra!

TUTTI: (bevendo)
Viva!

UN SOLDATO:
A Spagna ed all’Italia unite!

CORO:
Evviva!

PREZIOSILLA:
Al nostro eroe Don Federico Herreros!

TUTTI:
Viva! Viva!

UN ALTRO SOLDATO:
Ed al suo degno amico Don Felice de Bornos.

TUTTI: (bevendo)
Viva, viva!

Atto TERZO
Scena XI

L’attenzione è attirata da Mastro Trabuco, rivendugliolo, che, dalla bottega a sinistra, viene con una cassetta al collo portante vari oggetti di meschino valore.

TRABUCO:
A buon mercato chi vuol comprare?
Forbici, spille, sapon perfetto!
Io vendo e compro qualunque oggetto,
Concludo a pronti qualunque affar.

UN SOLDATO:
Ho qui un monile; quanto mi dai?

ALTRO SOLDATO:
V’è una collana. Se vuoi la vendo.

ALTRO SOLDATO:
Questi orecchini, li pagherai?

TUTTI: (mostrando orologi, anelli, ecc)
Vogliamo vendere . . .

TRABUCO:
Ma quanto vedo
Tutto è robaccia, brutta robaccia!

TUTTI:
Tale, o furfante, è la tua faccia.

TRABUCO:
Pure aggiustiamoci, per ogni pezzo
Do trenta soldi.

TUTTI:
Da ladro è il prezzo.

TRABUCO:
Ih! Quanta furia! C’intenderemo.
Qualch’altro soldo v’aggiungeremo.
Date qua, subito!

TUTTI:
Purché all’istante
Venga il denaro bello e sonante.

TRABUCO:
Prima la merce, qua, colle buone.

TUTTI: (dandogli gli oggeti)
A te.

TRABUCO: (ritrando la roba e pagando)
A te, a te, benone.

TUTTI: (cacciandolo)
Sì, sì, ma vattene!
TRABUCO: (fra sé, contento)
Che buon affare!
(poi, forte)
A buon mercato chi vuol comprare?
(Si avvia verso un’altro lato del campo).

Atto TERZO
Scena XII

Detti e Contadini questuanti con ragazzi a mano.

CONTADINI:
Pane, pan per carità!
Tetti e campi devastati
N’ha la guerra, ed affamati
Cerchiam pane per pietà.

Atto TERZO
Scena XIII

Detti ed alcune Reclute piangenti che giungono scortate.

RECLUTE:
Povere madri deserte nel pianto
Per dura forza dovemmo lasciar.
Della beltà n’han rapiti all’incanto,
A’ nostre case vogliamo tornar.

VIVANDIERE: (accostandosi gaiamente alle reclute ed offrendo loro da bere)
Non piangete, giovanotti,
Per le madri, per le belle;
V’ameremo quai sorelle,
Vi sapremo consolar.
Certo il diavolo non siamo;
Quelle lagrime tergete,
Al passato, ben vedete,
Ora è inutile pensar.

PREZIOSILLA: (entra fra le reclute, ne prende alcune pel braccio, e dice loro burlescamente:)
Che vergogna! Su, coraggio!
Bei figliuoli, siete pazzi?
Se piangete quai ragazzi
Vi farete corbellar.
Un’ occhiata a voi d’intorno,
E scommetto che indovino,
Ci sarà più d’un visino
Che sapravvi consolar.
Su, coraggio, coraggio, coraggio!

TUTTI:
Nella guerra è la follia
Che dee il campo rallegrar;
Viva, viva la pazzia
Che qui sola ha da regnar!

(Le vivandiere prendono le reclute pel braccio e s’incomincia vivacissima danza generale. Ben presto la confusione e lo schiamazzo giungono al colmo).

Atto TERZO
Scena XIV

Detti e Fra Melitone che, preso nel vortice della danza, è per un momento costretto a ballare con le vivandiere. Finalmente, riuscito a fermarsi, esclama:

MELITONE:
Toh! Toh! Poffare il mondo! Che tempone!
Corre ben l’avventura! Anch’io ci sono.
Venni di Spagna a medicar ferite,
ed alme a mendicar.
Che vedo? È questo un campo di Cristiani, o siete Turchi?
Dove s’è visto berteggiar la santa
domenica così?…Ben più faccenda
le bottiglie vi dan che le battaglie!
E invece di vestir cenere e sacco
qui si tresca con Venere, con Bacco?
Il mondo è fatto una casa di pianto;
ogni convento ora è covo del vento! I santuari
spelonche diventar di sanguinari;
perfino i tabernacoli di Cristo
fatti son ricettacoli del tristo.
Tutto va a soqquadro.
E la ragion? La ragion?
Pro peccata vestra: pei vostri peccati.

SOLDATI:
Ah, frate, frate!

MELITONE:
Voi le feste calpestate,
Rubate, bestemmiate . . .

SOLDATI ITALIANI:
Togone infame!

SOLDATI SPAGNUOLI:
Segui pur, padruccio.

MELITONE:
E membri e capi siete d’una stampa:
Tutti eretici.
Tutti, tutti cloaca di peccati,
E finché il mondo
Puzzi di tal pece
Non isperi la terra alcuna pace.

SOLDATI ITALIANI: (serrandolo intorno)
Dàlli! Dàlli!

SOLDATI SPAGNUOLI: (difendendolo)
Scappa! Scappa!

SOLDATI ITALIANI:
Dàlli! Dàlli sulla cappa!

(Cercano di picchiarlo, ma egli se la svigna, declamando sempre)

PREZIOSILLA: (ai soldati che lo inseguono uscendo dalla scena)
Lasciatelo chi’ei vada.
Far guerra ad un cappuccio! Bella impresa!
Non m’odon? Sia il tamburo sua difesa.

(Prende a caso un tamburo e, imitata da qualche tamburino, lo suona. I soldati accorrono tosto a circondarla, seguiti da tutta la turba)

PREZIOSILLA e CORO:
Rataplan, rataplan, della gloria
Nel soldato ritempra l’ardor;
Rataplan, rataplan, di vittoria
Questo suono è segnal percursor!
Rataplan, rataplan, or le schiere
Son guidate raccolte a pugnar!
Rataplan, rataplan, le bandiere
Del nemico si veggon piegar!
Rataplan, pim, pam, pum, inseguite
Chi la terga, fuggendo, voltò . . .
Rataplan, le gloriose ferite
Col trionfo il destin coronò.
Rataplan, rataplan, la vittoria
Più rifulge de’ figli al valor! . . .
Rataplan, rataplan, la vittoria
Al guerriero conquista ogni cor.
Rataplan, rataplan, rataplan!

(Escono correndo)

Atto QUARTo
Scena I

Vicinanze d’Hornachuelos. Interno del convento della Madonna degli Angeli. Meschino porticato circonda una corticella con aranci, oleandri, gelsomini. Alla sinistra dello spettatore è la porta che mette al via; a destra, altra porta sopra la quale si legge “Clausura”. Il Guardiano passeggia solennemente, leggendo il suo breviario. Dalla sinistra entra una folla di mendicanti, uomini e donne di tutte le età, che portano scodelle grezze, recipienti e piatti.

CORO DEI MENDICANTI:
Fate, la carità,
Andarcene dobbiam, andarcene dobbiamo,
Andarcene dobbiam, la carità, la carità!

Atto QUARTo
Scena II

Fra Melitone entra da destra, portando un grande grembiule bianco e assistito da un converso, che porta una grande pentola a due manici. La mettono giù nel centro del cortile e il converso va via.

MELITONE:
Che? Siete all’osteria?
Quieti . . .
(Comincia a scodellare la minestra)

MENDICANTI: (spingendo continuamente)
Qui, presto a me, presto a me, ecc.

MELITONE:
Quieti, quieti, quieti, quieti.

I VECCHI:
Quante porzioni a loro!
Tutto vorrian per sé.
N’ebbe già tre Maria!

UNA DONNA: (a Melitone)
Quattro a me . . .

MENDICANTI:
Quattro a lei!

DONNA:
Sì, perché ho sei figliuoli . . .

MELITONE:
Perché il mandò Iddio.

MELITONE:
Sì, Dio . . . Dio. Non li avreste
Se al par di me voi pure
La schiena percoteste
Con aspra disciplina,
E più le notti intere
Passaste recitando
Rosari e Miserere . . .

GUARDIANO:
Fratel . . .

MELITONE:
Ma tai pezzenti son di fecondità
davvero spaventosa . . .

GUARDIANO:
Abbiate carità.

I VECCHI:
Un po’ di quel fondaccio
Ancora ne donate.

MELITONE:
Il ben di Dio, bricconi,
Fondaccio voi chiamate?

MENDICANTI: (porgendo le loro scodelle)
A me, padre a me, a me, a me, ecc.

MELITONE:
Oh, andatene in malora,
O il ramajuol sul capo
V’aggiusto bene or ora . . .
Io perdo la pazienza! ecc.

GUARDIANO:
Carità.

LE DONNE:
Più carità ne usava
il padre Raffael.

MELITONE:
Sì, sì, ma in otto giorni
Avutone abbastanza
Di poveri e minestra,
Restò nella sua stanza,
E scaricò la soma
Sul dosso a Melitone . . .
E poi con tal canaglia
Usar dovrò le buone?

GUARDIANO:
Soffrono tanto i poveri . . .
La carità è un dovere.

MELITONE:
Carità, con costoro
Che il fanno per mestiere?
Che un campanile abbattere
Co’ pugni sarien buoni,
Che dicono fondaccio,
Fondaccio il ben di Dio . . .
Bricconi, bricconi, bricconi!
E dicono fondaccio, ecc.

LE DONNE:
Oh, il padre Raffaele! ecc.

GLI UOMINI:
Era un angelo! Un santo! ecc.

MELITONE:
Non mi seccate tanto!

MENDICANTI:
Un santo! Un santo!
Sì; sì, sì, sì, un santo! ecc.

MELITONE: (buttando per aria il recipiente con un calcio)
Il resto, a voi prendetevi,
Non voglio più parole, ecc.
Fuori di qua, lasciatemi,
Sì, fuori al sole, al sole,
Lasciatemi, ecc.
Pezzenti più di Lazzaro,
Sacchi di pravità . . .
Via, via bricconi, al diavolo,
Toglietevi di qua;
Pezzenti più di Lazzaro, ecc.

MENDICANTI:
Oh, il padre Raffaele!
Era un angel! Era un santo! ecc.

MELITONE:
Pezzenti più di Lazzaro, ecc.

MENDICANTI:
Il padre Raffaele!
Era un angelo! Un santo! ecc.

MELITONE:
Fuori di qua! Lasciatemi,
. . . Fuori, fuori, via di qua! ecc.

(Il frate infuriato li saccia dal cortile. Dopo prende un fazzoletto dalla sua manica e con esso si asciuga il sudore della fronte)

Atto QUARTo
Scena III

Il Padre Guardiano e Fra’ Melitone

MELITONE:
Auf! Pazienza non v’ha che basti!

GUARDIANO:
Troppa dal Signor non ne aveste.
Facendo carità un dover s’adempie
da render fiero un angiol . . .

MELITONE:
Che al mio posto
in tre dì finirebbe
col minestrar de’ schiaffi.

GUARDIANO:
Tacete; umil sia Meliton,
né soffra se veda preferirsi Raffaele.

MELITONE:
Io? No . . . amico gli son, ma ha certi gesti . . .
Parla da sé . . . ha cert’occhi.

GUARDIANO:
Son le preci, il digiuno.

MELITONE:
Ier nell’orto lavorava cotanto stralunato, che
scherzando dissi: Padre, un mulatto parmi . . .
Guardommi bieco, strinse le pugna, e . . .

GUARDIANO:
Ebbene?

MELITONE:
Quando cadde
sul campanil la folgore, ed usciva
fra la tempesta, gli gridai: mi sembra
Indian selvaggio . . . un urlo
cacciò che mi gelava.

GUARDIANO:
Che v’ha a ridir?

MELITONE:
Nulla, ma il guardo e penso,
narraste, che il demonio
qui stette un tempo in abito da frate . . .
Gli fosse il padre Raffael parente?

GUARDIANO:
Giudizi temerari . . . il ver narrai . . . ma n’ebbe il
Superior rivelazione allora . . . Io, no.

MELITONE:
Ciò è vero! Ma strano è molto il padre! La ragione?

GUARDIANO:
Del mondo i disinganni,
L’assidua penitenza,
Le veglie, l’astineza
Quell’anima, quell’anima turbâr.

MELITONE:
Sarrano i disinganni,
L’assidua penitenza,
Le veglie, l’astinenza
Che il capo gli guastâr!

GUARDIANO:
Del mondo i disinganni, ecc.

MELITONE:
Sarrano i disinganni, ecc.

(Il campanello del cancello suona rumorosamente)

GUARDIANO:
Giunge qualcuno, aprite.

(Il Padre Guardiano esce).

Atto QUARTo
Scena IV

Fra’ Melitone apre la porta ed entra Don Carlo, che avviluppato in un grande mantello entra francamente.

CARLO: (alteramente)
Siete il portiere?

MELITONE: (fra sé)
È goffo ben costui!
(forte)
Se apersi, parmi . . .

CARLO:
Il padre Raffaele?

MELITONE:
(Un altro!)
Due ne abbiamo;
L’un di Porcuna, grasso,
Sordo come una talpa. Un altro scarno,
Bruno, occhi, (ciel, quali occhi!) Voi chiedete?

CARLO:
Quel dell’inferno.

MELITONE:
(È desso!) E chi gli annuncio?

CARLO:
Un cavalier.

MELITONE: (fra sé)
Qual boria! È un mal arnese.

(Melitone esce)

Atto QUARTo
Scena V

Don Carlo, poi Don Alvaro in abito da Frate

CARLO:
Invano Alvaro ti celasti al mondo,
e d’ipocrita veste
scudo facesti alla viltà. Del chiostro
ove t’ascondi m’additâr la via
l’odio e la sete di vendetta; alcuno
qui non sarà che ne divida. Il sangue,
solo il tuo sangue può lavar l’oltraggio
che macchìo l’onor mio,
e tutto il verserò. Lo giuro a Dio.

(Entra Don Alvaro, in abito da frate)

ALVARO:
Fratello . . .

CARLO:
Riconoscimi.

ALVARO:
Don Carlo! Voi, vivente!

CARLO:
Da un lustro ne vo’ in traccia,
Ti trovo finalmente;
Col sangue sol cancellasi
L’infamia ed il delitto.
Ch’io ti punisca è scritto
Sul libro del destin.
Tu prode fosti, or monaco,
Un ‘arma qui non hai . . .
Deggio il tuo sangue spargere.
Scegli, due ne portai.

ALVARO:
Vissi nel mondo, intendo;
Or queste vesti, l’eremo,
Dicon che i falli ammendo,
Che penitente è il cor.
Lasciatemi.

CARLO:
Difendere
Quel sajo, né il deserto.
Codardo, te nol possono.

ALVARO: (trasalendo)
Codardo! Tale asserto . . .
(frenandosi)
No, no! Assistimi, Signore!
(a Don Carlo)
Le minaccie, i fieri accenti,
Portin seco in preda i venti;
Perdonatemi, pietà,
O fratel, pietà, pietà!
A che offendere cotanto
Chi fu solo sventurato?
Deh, chiniam la fronte al fato,
O fratel, pietà, pietà!

CARLO:
Tu contamini tal nome.
Una suora mi lasciasti
Che tradita abbandonasti
All’infamia, al disonor.

ALVARO:
No, non fu disonorata,
Ve lo giura un sacerdote!
Sulla terra l’ho adorata
Come in cielo amar si puote.
L’amo ancora, e s’ella m’ama
Più non brama questo cor.

CARLO:
Non si placa il mio furore
Per mendace e vile accento;
L’arme impugna ed al cimento
Scendi meco, o traditor.

ALVARO:
Se i rimorsi, il pianto omai
Non vi parlano per me,
Qual nessun mi vide mai,
Io mi prostro al vostro pié!
(S’inginocchia)

CARLO:
Ah la macchia del tuo stemma
Or provasti con quest’atto!

ALVARO: (balzando in piedi, furente)
Desso splende più che gemma.

CARLO:
Sangue il tinge di mulatto.

ALVARO: (non potendo più frenarsi)
Per la gola voi mentite!
A me un brando!
(Glielo strappa di mano)
Un brando, uscite!

CARLO:
Finalmente!

ALVARO: (ricomponendosi)
No, l’inferno non trionfi.
Va, riparti.
(Getta via la spada)

CARLO:
Ti fai dunque di me scherno?

ALVARO:
Va.

CARLO:
S’ora meco misurarti,
O vigliacco, non hai core,
Ti consacro al disonore.
(Gli dà uno schiaffo)

ALVARO: (furente)
Ah, segnasti la tua sorte!
Morte.
(Raccoglie la spada)

CARLO:
Morte! A entrambi morte!

CARLO e ALVARO:
Ah! Vieni a morte,
A morte andiam!

(Escono, correndo)

Atto QUARTo
Scena VI

Presso la grotta di Leonora. Valle tra rupi inaccessibili, attraversata da un ruscello. Nel fondo a sinistra dello spettatore è una grotta con porta praticabile, e sopra una campana che si potrà suonare dall’interno. La scena si oscura lentamente; la luna apparisce splendidissima. Donna Leonora, pallida, sfigurata, esce dalla grotta, agitatissima.

Leonora

LEONORA:
Pace, pace, mio Dio!
Cruda sventura
M’astringe, ahimé, a languir;
Come il dì primo
Da tant’anni dura
Profondo il mio soffrir.
L’amai, gli è ver!
Ma di beltà e valore
Cotanto Iddio l’ornò.
Che l’amo ancor.
Né togliermi dal core
L’immagin sua saprò.
Fatalità! Fatalità! Fatalità!
Un delitto disgiunti n’ha quaggiù!
Alvaro, io t’amo.
E su nel cielo è scritto:
Non ti vedrò mai più!
Oh Dio, Dio, fa ch’io muoia;
Che la calma può darmi morte sol.
Invan la pace qui sperò quest’alma
In preda a tanto duol.

(Va ad un sasso ove sono alcune provvigioni deposte dal Padre Guardiano)

Misero pane, a prolungarmi vieni
La sconsolata vita . . . Ma chi giunge?
Chi profanare ardisce il sacro loco?
Maledizione! Maledizione! Maledizione!

(Torna rapidamente alla grotta, e vi si rinchiude).

Atto QUARTo
Scena VII

Si ode dentro la scena un cozzare di spade

Alvaro, Leonora

CARLO: (dall’interno)
Io muoio! Confessione!
L’alma salvate.

ALVARO: (entrando in scena con spada sguainata)
E questo ancora sangue d’un Vargas.

CARLO:
Confessione!

ALVARO: (gettando via la spada)
Maledetto io sono . . .
Ma qui presso è un eremita.
(Corre alla grotta e batte alla porta)
A confortar correte un uom che muor.

LEONORA: (dall’interno)
Nol posso.

ALVARO:
Fratello! In nome del Signore.

LEONORA:
Nol posso.

ALVARO: (battendo più forte)
È d’uopo.

LEONORA: (dall’interno suonando la campana)
Aiuto! Aiuto!

ALVARO:
Deh, venite.

Atto QUARTo
Scena VIII

Detto e Leonora che si presenta sulla porta

LEONORA:
Temerarii, del ciel l’ira fuggite!

ALVARO:
Un donna! Qual voce . . .
Ah, no . . . uno spettro!

LEONORA: (riconoscendo Alvaro)
Che miro?

ALVARO:
Tu, Leonora!

LEONORA:
Egli è ben desso.
Ah, ti riveggo ancora.

ALVARO:
Lungi, lungi da me; queste mie mani
grondano sangue, Indietro!

LEONORA:
Che mai parli?

ALVARO: (indicando il bosco)
Là giace spento un uom.

LEONORA:
Tu l’uccidesti?

ALVARO:
Tutto tentai per evitar la pugna.
Chiusi i miei dì nel chiostro.
Eì mi raggiunse, m’insultò, l’uccisi.

LEONORA:
Ed era?

ALVARO:
Tuo fratello!

LEONORA:
Gran Dio!
(Corre ansante vero il bosco)

ALVARO:
Destino avverso,
Come a scherno mi prendi!
Vive Leonora, e ritrovarla deggio
or che versai di suo fratello il sangue!

LEONORA: (dall’interno, mettendo un grido)
Ah!

ALVARO:
Qual grido! Che avvene?


Atto QUARTo
Scena IX

Leonora, ferita, entra sostenuta dal Padre Guardiano e Detto.

ALVARO:
Ella, ferita!

LEONORA: (morente)
Nell’ora estrema perdonar non seppe.
E l’onta vendicò nel sangue mio.

ALVARO:
E tu paga, non eri, o vendetta di Dio.
Maledizione!

GUARDIANO: (solenne)
Non imprecare; umiliati
A Lui ch’è giusto e santo,
Che adduce a eterni gaudii
Per una via di pianto;
D’ira e fulgor sacrilego
Non profferir parola,
Vedi, vedi quest’angiol vola
Al trono del Signor.

LEONORA: (Con voce morente)
Sì, piangi e prega.
Di Dio il perdono io ti prometto.

ALVARO:
Un reprobo, un maledetto io sono.
Flutto di sangue innalzasi fra noi.

LEONORA:
Piangi! Prega!

GUARDIANO:
Prostrati!

LEONORA:
Di Dio il perdono io ti prometto.

ALVARO:
A quell’accento più non poss’io resistere.
(Si getta ai piedi di Leonora)

GUARDIANO:
Prostrati!

ALVARO:
Leonora, io son redento,
Dal ciel son perdonato!

LEONORA e GUARDIANO:
Sia lode a Te, Signor.

LEONORA: (ad Alvaro)
Lieta or poss’io precederti
Alla promessa terra.
Là cesserà la guerra,
Santo l’amor sarà.

ALVARO:
Tu mi condanni a vivere.
E m’abbandoni intanto!
Il reo, il reo soltanto
Dunque impunito andrà!

GUARDIANO:
Santa del suo martirio
Ella al Signor ascenda,
E il suo morir t’apprenda
La fede e la pietà!

LEONORA:
In ciel ti attendo, addio!

ALVARO:
Deh, non lasciarmi,
Leonora, ah no, non lasciarmi . . .

LEONORA:
Ah . . . ti precedo . . . Alvaro . . . Ah . . .
Alvar . . . Ah!
(Muore)

ALVARO:
Morta!

GUARDIANO:
Salita a Dio!

FINE

 

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