Sogno d’un tramonto d’autunno
Poema tragico in un atto
Musica: Gian Francesco Malipiero
Testo: Gabriele D’Annunzio
Prima rappresentazione: Mantova, Teatro sociale, 4 ottobre 1988.
Ruoli:
- La Dogaressa vedova Gradeniga
- La camerista Pentella
- La Maga Schiavona
- Le spie:
- Orsèola
- Lucrezia
- Catarina
- Iacobella
- Nerissa
- Barbara
- Ordella
Libretto – Sogno d’un tramonto d’autunno
SOGNO D’UN TRAMONTO D’AUTUNNO
Il dominio d’un patrizio veneto, su la riva della Brenta, lasciato in retaggio da uno degli ultimi Dogi alla Serenissima Vedova che quivi dimora come un’esule. Il giorno autunnale volge al tramonto. Si scorge da presso un’ala della villa: un’architettura circolare di marmo in forma di torre rotonda, che racchiude la scala – simile a quella del palazzo veneziano detto del Bovolo nella Corte Contarina – ove i gradi, le colonne e i balaustri salgono a spira. La meravigliosa scala aerea si corona d’una loggia – nascosta dall’arco scenico donde si scopre tutto il giardino e il fiume e la campagna lontana. In basso, dinanzi alla porta è uno spazio libero, una specie di atrio scoperto, ornato di statue, di torcieri, di scanni, di tappeti damaschini, separato dal giardino per mezzo di cancelli sostenuti da pilastri in cui sono infissi grandi fanali dorati che un tempo si alzarono su le prore delle galèe. I cancelli di ferro – simili a quelli che circondano le Arche degli Scaligeri veronesi – appaiono sottilmente lavorati come giachi, eleganti come opere di ricamo, snodati per modo che il vento talvolta li muove con lievi stridori.
A traverso si scorge l’immenso giardino di delizia e di pompa, un pesante corpo di foglie trascolorite, di fiori sfiorenti, di frutti strafatti, inclinato verso la Brenta con l’abbandono di una creatura voluttuosa e stanca che s’inclini verso uno specchio per rimirarvi l’ultimo splendore di sua bellezza caduca. La porpora e il croco dell’autunno risplendono straordinariamente sotto il sole obliquo; le ombre appaiono quasi fulve, come quelle degli antri ov’è adunato molto oro. Vaste nuvole immobili e raggianti, simili ad ammassi di puro elettro, pendono su i portici dei càrpini, su le cupole dei pini, su le guglie dei cipressi. Sembra per ovunque diffuso nel silenzio, il sentimento ansioso dell’aspettazione.
La dogaressa vedova Gradeniga sta con la faccia contro il cancello alle cui maglie nere le sue mani pallide e inanellate si aggrappano nell’impazienza furiosa dell’aspettazione. La trama ferrea, premuta dal corpo convulso, piegasi e oscilla. L’attitudine della donna mentre ella chiama verso il giardino, appare simile a quella d’una fiera presa in una rete.
GRADENIGA
(con la voce rauca e irosa.)
Lucrezia! Ordella! Orsèola! Barbara! Catarina!
Nerissa!… Nessuna torna ancóra, nessuna
torna ancóra! … Lucrezia! Catarina!
(Con un impeto d’ira ella scuote il ferro che oscilla e stride. Si volge alenando; guarda intorno con occhi smarriti; s’irrigidisce, esangue, come sul punto di abbandonarsi a una convulsione frenetica di dolore e di furore. Fa qualche passo verso il piedestallo d’una Venere di bronzo quasi nera, sul quale è posato uno specchio d’argento, ch’ella prende. Vi si affisa per qualche attimo. Come sbigottita, lo lascia cadere sul tappeto. Va verso la spira della scala, chiama.)
Pentella! Pentella! Dove sei tu? Che vedi tu?
Rispondi!
PENTELLA
(dall’alto della spira, non visibile.)
Una barca su la Brenta, tutta pavesata, piena
di musici, che s’avvicina… Ma non è quella.
Vostra Serenità ode i suoni?
(Giunge a traverso il giardino un’onda di musica lontana. Una pausa.)
Un’altra barca ancóra! Un’altra! Ancóra un’altra!
Quattro, cinque, sei barche, tutte pavesate,
piene di musici… Discendono per la corrente.
Tutto il fiume s’è fatto d’oro. Incomincia la
festa. Una barca ha tutti i pavesi rossi, mille
fiamme che ardono… È, quella!
(Gradeniga fa l’atto impetuoso di slanciarsi su per la scala.)
No, non è quella. Porta il Leone col Fiore…
Soranzo!
GRADENIGA
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