L’Oristeo
Dramma per musica
Libretto di Giovanni Faustini
Musica di Francesco Cavalli
Prima esecuzione: carnevale 1651, Venezia, Teatro Sant’Apollinare.
Interlocutori
Il GENIO CATTIVO d’Oristeo | soprano |
Il GENIO BUONO d’Oristeo | basso |
DIOMEDA principessa della Caonia, ripudiato Oristeo, ama Trasimede | soprano |
TRASIMEDE principe d’Achaia, sprezzate le nozze di Corinta, aspira a quelle di Diomeda | tenore |
ERMINO paggio di Trasimede | soprano |
ORISTEO re di Epiro, amante e sposo ripudiato da Diomeda, creduto giardiniero, sotto nome di Rosmino | baritono |
CORINTA principessa di Locri, innamorata del suo sprezzatore Trasimede, sconosciuta, sotto nome d’Albinda | soprano |
ORESDE giardiniero regio | contralto |
EURIALO figlio d’Oristeo | soprano |
AMORE figliuolo di Penia | soprano |
PLUTO dio delle ricchezze | tenore |
PENIA dèa della povertà, madre di Amore | soprano |
La BELLEZZA | soprano |
La VIRTÙ | soprano |
L’ INTERESSE | tenore |
NEMEO capitano d’Eurialo | tenore |
Coro di soldati Molossi pretoriani. Le Grazie. Coro di Soldati di Nemeo. Coro di Amorini. Coro di Damigelle di Diomeda.
La favola si rappresenta in Emira, fortezza della Caonia situata a piedi de’ monti Acrocerauni, oggidì detti Cimeraci poco discosta dalle riviere dell’Ionio.
Libretto – L’Oristeo
All’illustrissimo…
Alvise Duodo dell’illust.mo eccell. sig. Girolamo.
Giovanni Faustini
Io non son di quelli, illustrissimo signor mio, che scrivono per dilettare il proprio capriccio; affatico la penna, le consegno la mia ambizione per tentare, s’ella potesse innalzarmi sopra l’ordinario, ed il commune degl’ingegni stupidi, e plebei. Questa onorata pazzia, che cominciò quasi ad assalirmi uscito da’ vincoli delle fascie, non cessando mai dalle sue istigazioni, mi necessita alle assidue fabbriche di varie tessiture; composi però, senza l’impulso dell’ambito fine l’Oristeo, e la Rosinda, gettato poco tempo nella loro creazione, per sgravarmi dalle obbligazioni, che inavvertito mi avevano racchiuso tra le angustezze d’un teatro, dove, se non altro, l’occhio avvezzato alla vastezza di scene reali s’inviliva nella vicinanza dell’apparenze. E vero, che non dissimile dall’orchestra suddetta, nella quale comparsero Ersilla, ed Euripo, e dove di poi dovevano farsi vedere questi gemelli, è il palco da me eretto, per decapitare l’ozio della istituzione del mio viver libero, ma è anco verissimo che da loro, come da cadaveri, non pretendo di trarre voci d’applauso, riserbando a tempi più lieti, ed a teatri più maestosi l’Eupatra, l’Alcibiade, ed il Meraspe, eroi usciti d’embrioni, e quasi perfezionati. Che Amore sia figlio di Poro, e di Penia, cioè del consiglio, e della povertà lo espone nel convito Platone, e che Pluto sia il datore delle ricchezze lo narra in Timone Luciano. Mi dichiaro per i semplici, accioché la novità della genealogia di questo cieco non gli rendesse confusa l’intelligenza dell’episodio. Ora, illustrissimo signore, che faranno questi principi senza moto, e senza spirito, se esangui, ed a pena formati gli abbandona il loro Prometeo, ella con i raggi del sole di quella virtù, che comincia a disciplinarsi nelle scuole politiche di questo serenissimo governo, cortesissima li dia l’anima; e chi sa, che non ricevino, ripudiati dal padre, sotto la di lei tutela, insperate acclamazioni, e non venghino illustrati dalla sua Pallade. Acconsenta v. s. illustris. alla protezione di questi regi pupilli, a gl’esempi della sua generosa repubblica già di re grandi tutrice; ch’io per fine le bacio le mani.
Delucidazione della favola
Oristeo re di Epiro, dopo aver pianta la morte della regina Eripe s’innamorò di Diomeda, figliuola d’Evandro, principe di Caonia, e con efficaci ambasciate la dimandò al padre per moglie. Evandro acconsentì alle richieste del re vicino, e Diomeda persuasa dalla fama delle virtù d’Oristeo, confermossi con le risoluzioni paterne. S’incamminò, accompagnata la sposa dal padre, verso l’Epiro, ed Oristeo intesa la mossa, spronato dall’impazienza di attenderla nella reggia, stipato dalla nobiltà del regno, si partì per accoglierla nel viaggio, con fasto pari alle sue affezioni. S’incontrarono nell’imbrunir della notte nel folto di certa selva gli epiroti, ed i caoni, inavvertiti vennero alle armi, morì nella zuffa Evandro, fuggì Diomeda i fragori di quel Marte improvviso, ed intesa la morte del padre, cangiate le faci de’ suoi sponsali in funestissime pire, ritornò dolorosa in Caonia, ripudiando le nozze infauste dell’epirota. Oristeo, sedato il tumulto, e conosciuto l’errore, e l’estinto, pianse la morte del povero Evandro, ed inviatolo con pompa reale a Diomeda, con pubblicare l’innocenza del suo delitto, le chiese mille perdoni. Diomeda accettò con diluvi di lacrime il paterno cadavere, e rifiutate le discolpe d’Oristeo, lo ritolse dalla speranza di esser più sua. Oristeo vedutosi abbandonato dalla fortuna, e d’Amore, fattosi preda d’una tenace melanconia, si partì sconosciuto, senza avvisare i più domestici, e cari, dal regno, per provare, se lontano dalla Caonia potesse levare il pensiero dalle sue fisse immaginazioni amorose, e con la varietà de’ pellegrinaggi, c’avea proposto di fare, sanare l’infermità del core penante. Così guadate l’acque del soggetto Acheronte, superati i gioghi di Pindo, passò in Tessaglia, e su per le rive del Sperchio arrivò a Tebe: di là imbarcatosi solcò l’Egeo, l’Ellesponto, la Propontide, e giunto nell’Eusino approdò a Colco, dove stupì della inerudizione di quei geografi, che fecero isola quella regione, essendo ella, cangiato l’antico nome in Mengrellia, notissimo continente. Indi inoltratosi nell’Iberia passò fra gl’Albani, e di là per l’Hircania al mar Caspio, ad Hircano, dove raddoppiò i stupori per l’imperizia di quei medesimi, che fatto Colco isola, posero le navi tessale a varcar quell’onde, e fecero, che di là potesse navigare in Grecia; avendo udito da nativi nocchieri, che quel mare, ora detto con nome barbaro di Bachù, circondato da’ suoi vastissimi giri è a sembianza di un lago, e tributato da propri fiumi, non avendo commercio con altro mare, non conosce per padre l’oceano. Pellegrinando Oristeo, giunse in Caonia Trasimede principe dell’Achaia, ed accolto da Diomeda, s’innamorarono gli ospiti l’uno dell’altro. Trasimede con le fiamme del nuovo Amore incenerì le memorie di Corinta, figlia di Thespiade re di Locri, destinata sua sposa; e Diomeda, che dopo i tristi eventi de’ suoi primi maritaggi, avea determinato di morir celibe, vivea in amarissime angoscie, tormentata da’ stimoli del nato affetto, e da quelli della costanza de’ suoi proponimenti. Mentre Corinta attendeva l’arrivo del suo Trasimede, amato, né mai veduto, Telafione, un sedizioso locro, imprigionatole il padre, si fece tiranno, onde la misera smarrita tra la confusione del caso repentino, e crudele, tolti seco certi doni, che volea inviare col suo ritratto al desiderato Marito, di notte, e sola fuggì la perfidia del ribello, e mosse il piede verso l’Achaia, sperando colà nelle braccia del dolce sposo di ritrovare il porto, che l’assicurasse dalle procelle della contraria fortuna. Chiedendo ad ogni passeggero ragguagli di Trasimede, intese da un pellegrino Caonio i suoi letarghi amorosi, e come adorava Diomeda. Stordita da quelle nuove, girò il passo, e vestita di panni proporzionati alla condizione del suo deplorabile stato, se n’andò in Emira, fortezza della Caonia, in cui sapeva ritrovarsi con la rivale il suo delirante. Ebbe ricovero la sconosciuta infelice nella casa della madre di Oreide giardiniero regio, dove timida di scoprirsi all’affascinato, veniva ogni giorno martirizzata da oggetti troppo feroci. Oristeo non mai abbandonato d’Amore, che per seguirlo avea l’ali, anzi con il moto de’ suoi viaggi, agitando, ed accrescendo maggiormente il suo foco, tralasciati i pensieri di navigare il Caspio, squallido, tramutato di effigie, ed in abito rustico se n’andò anch’egli in Emira, e posto da Oreide alla coltivazione de gl’orti, con core moribondo, udì sovente, impiegato ne’ suoi lavori, l’infiammate querele dell’emulo, e le lusinghiere speranze, che li dava la sua bella nemica. Le lagrime incessanti lo manifestarono amante all’innamorata Corinta, quale allegra tra le tristezze dell’anima di aver trovato un compagno alle sue passioni, li scoprì l’altezza della sua nascita, la fierezza del suo destino, e la crudeltà del suo tiranno.
Confusi i molossi dalla tacita, e furtiva partita del re loro, creati tutori a Eurialo, figlio de lo smarrito, e nato d’Eripe, di età di due lustri, inviarono esperti esploratori in varie parti per intendere nove di Oristeo. Questi ritornati al regno, dopo il corso delle loro peregrinazioni, senza notizia del ricercato, fu Eurialo incoronato, ed assunto al trono. In tanto si diffuse una fama, da dove originata non si seppe, che Trasimede avesse ucciso Oristeo, a comandi di Diomeda, desiderosa delle vendette del padre. L’ira implacabile della principessa, gli amori sviscerati del principe, il non ritrovarsi Oristeo nel mondo, prestò fede a quella bugia. Piansero gli epiroti le perdite del re, ed Eurialo augumentando con gl’anni il desiderio di castigare i micidiali del genitore, giunto al decimo quarto, armò il regno, ed improvviso per mare portatosi in Caonia, assediò in Emira gl’amanti, il padre, e Corinta. Il sito della rocca posto alle radici de gli Acrocerauni, e l’altezza del suo circuito la difesero da gl’empiti de gl’assalitori. Già la vicinanza del verno disperava l’impresa, e la forza non poteva superare la natura inespugnabile del loco, quando ricorrendo Eurialo per aiuto all’ingegno, datosi a formare occulte, e sotterranee caverne, dove il sasso non impediva la mina, sperava di felicitare il fine di quel tentativo, ed impiantate le palme della vittoria in Emira, innaffiarle con il sangue de’ traditori.
Prologo
Scena unica
Il Genio cattivo e il Genio buono d’Oristeo.
GENIO CATTIVO
Vomita con il foco
sul capo d’Oristeo, drago volante
tosco, che gl’avveleni,
che gl’attristi degl’anni i dì sereni.
Crinita minacciante
dell’orride tue luci
gli sia l’infausta fiamma, e con il velo
dell’ali tenebrose
dell’allegrezze sue coprisi ‘l cielo.
Gli venga di pietose
stelle impedito ogni cortese influsso
dalla scagliosa sua viperea mole:
per lui squallidi sieno i rai del sole.
GENIO BUONO
Sferza, che sproni al male,
voce che sempre istighi a fatti indegni,
consiglier disleale,
scorta, che guidi l’uom degl’empi a’ regni
morte a nome de grandi, o vita infame;
insidiose trame
ordisci pur contro il mio rege, ordisci,
voli, per l’aria, e strisci
infesta a lui, tua serpe, il corpo immondo,
ti vedrà vinto il mondo
da miei salubri avvisi, e scenderai,
deluso ne’ tuoi vanti, a patrii lai.
GENIO CATTIVO
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